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314 antonio e cleopatra

stendardi e colle sue schiere ben pagate fugammo la cavalleria dei Parti, invitta infino ad ora.

Sil. Dov’è adesso Antonio?

Vent. Ei pensa di andare ad Atene; è la, che con tutta quella sollecitudine che il bottino che rechiamo ci permetterà di usare, lo raggiungeremo. — Sfili l’esercito.     (escono)

SCENA II.

Roma. — Un’antistanza nel palazzo di Cesare.

Entrano Agrippa ed Enobarbo da diverse parti.

Agr. I fratelli son già separati?

Enob. Sì, Pompeo è partito, ed ora stanno in consiglio per suggellare il trattato. Ottavia piange e rammenta dolorando Roma; Cesare è mesto, e Lepido, dopo il banchetto, a quel che dice Mena, porta sul viso i segni di una malattia.

Agr. Nobile è Lepido.

Enob. Nobile assai. Oh come ama Cesare!

Agr. E quanto caro gli è Antonio!

Enob. Cesare? È il Giove degli uomini.

Agr. Antonio? È il Dio di Giove.

Enob. Parlate di Cesare? Ei non ha eguali.

Agr. Oh Antonio, oh fenice araba!1

Enob. Volete lodar Cesare, dite Cesare, e non andate più in là.

Agr. Infatti, ei prodigò ad entrambi eccellenti lodi.

Enob. Ma ama di più Cesare, sebbene ami Antonio. Oh il cuore, la lingua, nulla può sentire, nulla può esprimere, nulla può far intender come egli ami Antonio! Ma per Cesare, in ginocchio, in ginocchio, e adorazione.

Agr. Ama entrambi.

Enob. Essi sono le faci raggianti ed ei l’insetto notturno che ronza senza posa e svolazza d’intorno. Sì... (squillo di trombe) ma ecco il segnale; a cavallo. — Addio, nobile Agrippa.

Agr. Buona fortuna, degno soldato; e addio. (Entrano Cesare, Antonio, Lepido e Ottavia)

Ant. Signore, non andate più oltre.

Ces. Voi mi togliete la più cara parte di me; pensate a ben trattarmi in lei. — Sorella, siate una sposa quale il mio pensiero vi dipinge a’ miei occhi, e la vostra condotta giustifichi tutto

  1. Bird, uccello.