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atto secondo | 311 |
Pom. Che dici?
Mena. Vuoi essere signore di tutto il mondo? te lo chieggo anche una volta.
Pom. Come avverrebbe ciò?
Mena. Acconsenti solo; e per quanto debole tu mi possa credere, io son tale che ti posso dare il mondo.
Pom. Bevesti assai?
Mena. No, Pompeo, mi astenni dal bere. Tu sei, se lo osi, il Giove della terra; tutto ciò che l’Oceano abbraccia, tutto ciò che la vôlta del Cielo racchiude, è tuo, se lo vuoi prendere.
Pom. Additami il mezzo.
Mena. Questi tre divisori del globo, questi tre competitori rivali stanno sul tuo vascello; lasciami tagliare la fune, e quando saremo in mare cedimi le loro teste, e tutto è tuo.
Pom. Conveniva farlo e non dirmelo; in me sarebbe viltà odiosa; in te, era servigio. Devi conoscere che non è il mio interesse che guida il mio onore: è il mio onore che signoreggia il mio interesse; pentiti che la tua lingua abbia osato dichiarare anzi tratto il tuo disegno; se eseguito lo avessi, l’avrei approvato, ma ora mi veggo costretto a condannarlo. Caccia tale idea, e va a bere.
Mena. (fra sè) Ebbene, non voglio più seguire la tua fortuna pericolante. Chiunque la cerca e non l’afferra, allorchè essa s’offre a lui, non la troverà più.
Pom. Alla salute di Lepido.
Ant. Portatelo sulla sponda. — L’accetterò in vece sua, Pompeo.
Enob. Questa è per te, Mena.
Mena. L’accolgo di buon cuore, Enobarbo.
Pom. Mesci finchè la tazza ne vada sommersa.
Enob. Colui è un valentuomo, amico. (indicando uno del seguito che porta via Lepido)
Mena. Perchè?
Enob. Ei porta una terza parte del mondo; nol vedi?
Mena. Allora la terza parte ne è ubbriaca; vorrei che fosse così, e potrebbe girar meglio.
Enob. Bevi, e accrescine le vertigini.
Mena. Vieni.
Pom. Questo non somiglia a uno de’ banchetti di Alessandria.
Ant. Ma vi si appressa assai. — Schiavi, guardate le onde. — Questa tazza alla salute di Cesare.
Ces. Vorrei rifiutare; perocchè è una gran fatica per me l’annaffiare il mio cervello che non ne diventa che più torbido.
Ant. Sii figlio delle circostanze.