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290 | antonio e cleopatra |
SCENA V.
Alessandria. — Una stanza nel palazzo di Cleopatra.
Entrano Cleopatra, Carmiana, Iras, e Mardiano.
Cleop. Carmiana...
Car. Signora.
Cleop. Ah, ah... dammi a bere un po’ di mandragola1.
Car. Perchè, signora?
Cleop. Perch’io possa dormire, durante tutto il lungo tempo che il mio Antonio starà lontano.
Car. A lui pensate troppo.
Cleop. O tradimento!
Car. Signora, io non ho tanta fiducia.
Cleop. Ebbene, eunuco Mardiano?
Mar. Qual è il piacere di Vostra Grandezza?
Cleop. Non di udirti cantare; non mi reca piacere ora alcuna dote d’eunuco. Bene è per te l’esser tale, che così i tuoi pensieri non errano fuori d’Egitto. Senti tu l’amore?
Mar. Sì, graziosa sovrana.
Cleop. In fatti?
Mar. Non in fatti, signora; perocchè nulla io posso fare, fuor di ciò che è onesto; nullameno provo tutta la violenza delle passioni, e penso spesso a quello che sperava Venere con Marte.
Cleop. Carmiana, dove credi tu ch’e’ sia ora? Diritto, o assiso? pedestre, o cavaliere? Fortunato corridore, che porti l’amato peso del mio Antonio, pensa a ben comportarti sotto di lui: perocchè sai tu chi rechi in groppa? L’atlante che sostiene la metà di questo globo, egida e braccio della specie umana. — Forse in questo istante ei dice o mormora sommesso: dov’è il mio serpente del vecchio Nilo? Perocchè tale è il nome che mi dà. — Ah! ora mi pasco con delizia di un veleno pieno di dolcezze. — Ricordati, caro Antonio, della tua Cleopatra, sebbene abbrunita adesso dagli ardenti baci del sole, sebbene il tempo rigato n’abbia il bel viso con rughe profonde. — O tu, Cesare, dall’augusta fronte, nel tempo in cui tu stavi qui al disopra della terra, allora io m’era un tesoro degno d’un monarca; e il gran Pompeo, trattenuto dall’ammirazione, staccar non poteva i suoi occhi dai
- ↑ Pianta narcotica.