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SCENA VII.

Altra stanza.

Entra Imogène.

Imog. Un padre crudele, una perfida madrigna, un insensato adoratore che vagheggia una donna già legata ad altri, e il di cui sposo è bandito... oh quale sposo! mia suprema corona di martirio, che rinnova ad ogni istante tutti i miei dolori!... Se fossi stata rapita bambina, come i miei due fratelli, ora sarei felice; chè più alla sventura si avvicina chi più alto ascende. Fortunati coloro che, posti in umile stato, veggono compiersi i modesti loro voti inspirati dalla natura, e in ogni stagione benedetti!... Chi mai sarà quello straniero? il suo volto mi spiace.

(entrano Pisanio e Jachimo)

Pis. Signora, un nobile cavaliere romano vi arreca lettere del vostro sposo.

Jach. Mutate colore, madonna? Il nobile Postumo non corre alcun pericolo, e saluta teneramente l’Altezza Vostra.

(le dà una lettera)

Imog. Vi ringrazio, buon signore; voi siete cordialmente il benvenuto.

Jach. (a parte). Tutto ciò che di lei si vede è d’una bellezza rara; e se a queste doti aggiunge un’anima egualmente perfetta, costei è veramente la fenice araba, ed io ho perduto la scommessa. Audacia, non mi abbandonare! riscaldami del potente tuo soffio; o, come il Parto, non combatterò che fuggendo, o fuggirò senza aver combattuto.

Imog. (legge) Egli è un cavaliere di gran seguito alle cui cortesie sono molto tenuto: ricambiatelo con eguali amabilità, e abbiatemi in conto del vostro fedele Leonato.

Non vi leggo che queste poche parole; ma il mio cuore è profondamente penetrato dal resto della lettera: è tutto commosso di tenerezza e di riconoscenza. — Voi siete il benvenuto, signore, credetelo alla mia gioia, e apprestatevi a comandarmi come ad una vostra obbediente ancella.

Jach. Ve ne ringrazio, bella principessa. Oh! gli uomini sono essi dunque insensati? La natura avrà loro dati gli occhi per contemplare quell’immensa vôlta, ricco padiglione che si stende al di sopra della terra e dei mari; gli occhi che veder possono gli