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atto quinto 179

non vedi le più infelici donne della terra. La tua vista, che dovrebbe farne versare lagrime di gioia e innondare il nostro cuore di diletto, ci strappa pianti di disperazione, e tremiti di paura e di dolore; manifestandosi agli occhi di una madre, di una sposa, di un fanciullo... un figlio, uno sposo, un padre, che strazia le viscere della sua patria. E a noi, sfortunate, il tuo odio è più fatale. Tu ne togli fin la potenza di pregare gli Dei, consolazione suprema degli infelici. Perocchè, come potremmo noi, oimè! come potremmo pregare gli Dei per la nostra patria, come ne abbiam dovere, e pregarli per la tua vittoria, come pure sarebbe di dover nostro? Oimè! perder n’è forza o la cara patria che ci ha nudriti, o te nostro conforto in essa. In qualunque modo i nostri voti si compiano, sventurate, altamente sventurate siamo; perocchè ci converrà vederti trascinare, carico di ceppi, come schiavo ribelle, lungo le nostre vie; o mirarti trionfante calpestar le ruine del tuo paese, coronato coll’alloro della vittoria pel prezzo d’aver valorosamente versato il sangue della tua sposa e de’ tuoi figli. Quanto a me, Marzio, io non aspetterò l’esito di questa guerra, nè gli eventi della fortuna. Se non ti posso indurre alla clemenza verso i due partiti, piuttostochè a cercar la ruina d’un d’essi dilaniando la patria, di me ti converrà calpestare il cadavere prima di entrare in Roma.

Virg. Sì, e me pure calpesterai; me, che ti feci padre onde vivesse nell’avvenire il tuo nome.

Il fanciullo. Me non calpesterà, io fuggirò: e fatto adulto, non penserò che a combattere.

Marz. Per non esser debole e sensibile come una donna, non conviene vedere nè un fanciullo, nè il volto d’una femmina. — Troppo ascoltai.

Vol. No, non lasciarne così. Se oggetto della nostra preghiera fosse il chiederti di salvar Roma, struggendo i Volsci che servi, avresti motivo di condannarne come nemiche del tuo onore. Ma la nostra preghiera è, che insiem li pacifichi; onde i Volsci possano dire: Usammo clemenza; ed i Romani: Accettata l’abbiamo; ed entrambi ti salutino gridando: Gli Dei benedicano Coriolano, che ci diè questa pace! Tu sai, mio illustre figlio, che gli eventi della guerra sono dubbi; ma ben certo è, che se tu vinci Roma, il frutto che ne raccorrai sarà un nome eternamente maledetto, e l’istoria dirà di te: Ei fu prode guerriero; ma contaminò la sua gloria colla sua ultima opera; distrusse il suo paese; e la sua memoria non andrà alle venture generazioni che coperta d’obbrobrio. — Rispondimi; figlio; tu aspirasti sempre alle più chiare