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148 | coriolano |
Men. Lo condurrò. (ai Senatori) Degnatevi d’accompagnarmi. Bisognerà ch’ei ci segua, o accadranno i mali più grandi.
1° Sen. Pregovi, andiamo a lui. (escono)
SCENA II.
Una stanza nella casa di Coriolano.
Entra Marzio ed alcuni Patrizi.
Marz. Quand’anche il dente di tutti quei furiosi mi straziasse il corpo; quand’anche mi presentassero la morte sopra la ruota, o alla coda di cavalli indomiti; quand’anche accumulassero dieci altre rupi sulla Tarpea, e da quella cima l’occhio misurar non potesse tutta la profondità dell’abisso, neppure allora metterei condotta. (entra Volunnia)
1° Patr. A generoso partito v’apponete.
Marz. Penso e veggo con istupore che mia madre comincia a non approvar più le mie opere, ella che soleva chiamare i plebei un gregge di pecore, buoni a comprarsi o a vendersi, non ad intervenire nelle pubbliche assemblee per mostrarvi nude le loro teste, e restarsene colle bocche spalancate allorchè qualcuno dei nostri parla. — Dico di voi, mia madre; perchè mi vorreste più dolce? perchè dovrei smentire il mio carattere? Io tale mi mostro, quale sono.
Vol. Oh signore, signore, signore, vorrei che aveste usato del poter vostro, non abusatene.
Marz. Avvenga che può.
Vol. Avreste potuto mostrare abbastanza qual siete, non ostentando di dimostrarlo. Il carattere vostro avrebbe trovato minori biasimi, se non vi foste tanto adoperato per porlo in luce.
Marz. Maledizione a quei pezzenti!
Vol. E fiamme eterne ancora. (entra Menenio e i Senatori)
Men. Su, su; foste troppo acre, un po’ troppo acre; v’è d’uopo tornare innanzi al popolo, e riparare al mal fatto.
1° Sen. Non v’è diverso temperamento se non volete vedere la nostra bella Roma, vittima del vostro rifiuto, straziata dalle discordie.
Vol. Vi prego, Marzio, accettate questo consiglio; io tengo in petto un cuore che non è molle più del vostro ma ho una testa che sa meglio reggere le mie passioni.
Men. Ben diceste, egregia Romana. Io, piuttosto che vederlo umiliarsi di tanto dinanzi alla moltitudine, se la violenza del mo-