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288 | otello |
da Otello combattere a Cipro, a Rodi, e in altre contrade infedeli e cristiane, da lui mi trovo reietto e compensato colle vane parole: So quel che vi debbo; siate paziente, e un dì vi compenserò. Ma io dovrò tacere? E colui, quell’inutile cianciatore, nel dì dei premii diverrà suo luogotenente, mentr’io rimarrò alfiere (rinneghi Iddio questo titolo!) di sua moresca Signoria?
Rodr. Pel Cielo! meglio avrei amato d’esser suo carnefice.
Jago. Ma non v’è più riparo; tale oggidì è la sorte di chi obbedisce. La promozione segue la briga e il favore, non già il merito e il dritto di chi molto servì. Giudicate ora voi stesso, se m’è possibile di amare il Moro.
Rodr. Ma perchè continuare allora a’ suoi stipendii?
Jago. Uditemi e sarete pago. Con lui rimango soltanto per rendergli i servigi che gli debbo: non a tutti è dato il farla da signori, nè tutti i signori sono serviti con fedeltà. Osservando, vedrete gran numero di schiavi officiosi che accarezzano la loro servitù, baciano le loro catene, e spendono i dì della vita come la bestia da soma, senz’altro profitto che il foraggio della giornata. Invecchiano poi? ignominiosamente si discacciano. Punite costoro; flagellate gli onesti schiavi. Ve ne sono altri però, i quali simulando la maschera e i segni di un profondo affetto, non hanno in cale, nel fondo dell’anima, che loro medesimi; e se prodigano a’ lor signori dimostrazioni di zelo, lo fanno solo per prosperare a loro scapito, rendendo omaggio non ad altri che a se stessi, dacchè han dorate le frangie de’ loro vestimenti. Questi ultimi hanno anima; ed è fra questi ch’io mi colloco. Ora, signore, come vero è che voi siete Rodrigo, così è certo che se io fossi il Moro, non vorrei vedermi intorno un Jago. Servendolo, servo me solo; e il Cielo me n’è testimonio! Nè sono già io che gli mostro amore, ma solo il volto mio; e ciò per vedute mie proprie. Ah! sì, sì; quando il mio atto esprimerà il mio pensiero, quando il mio esteriore lascierà trasparir la mia anima, allora ancora io porterò il cuor nudo in mano per farne copia a tutti i malvagi e agli stolti. No, non sono quello che sembro.
Rodr. Qual felicità suprema per quel Moro labbruto, se può condurla seco!
Jago. Avvertitene il padre; mettete il campo a romore in casa sua; avvelenate ogni gioia del Moro; e fate che ad accorr’uomo si gridi per le strade il suo nome. Svegliate i sospetti ne’ parenti, suscitate mille insetti divoratori nel paradiso ov’ei riposa, intorbidate ogni suo tripudio; e se mestieri è pure ch’ei gusti la felicità, la gusti almeno mescolata d’amarezze e di terrori.