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medio fra il gnomo e il selvaggio, d’una natura a metà da demone, a metà da bruto, e che lascia scorgere in tutte le sue attitudini i segni della sua origine, e quelli della educazione datagli da Prospero. Questo saggio uomo non ha potuto sviluppare l’intelletto di lui senza domare l’innata sua malvagità. Caliban è una specie di scimmia tozza, che sortì dalla natura la favella umana e un po’ di raziocinio. Esso è vile, simulato, adulatore; gode del male altrui: e nondimeno non somiglia a quegli scellerati della feccia del popolo, che furono alcuna volta dipinti da Shakspeare. Il mostro è rozzo, ma non volgare; non cade mai in quella triviale familiarità che mostrano i suoi briachi compagni; nel sua genere, infine, è un essere poetico. Sembra ch’egli abbia trascelto, per comporre il suo vocabolario, tutto ciò che il linguaggio ha di dissonante, di duro, di aspro; in quella guisa che ha soltanto scolpito nella sua immaginazione ciò che v’è di nocivo, di ripugnante, di meschinamente informe nell’immensa varietà della natura. Il mondo magico degli spiriti radunati dalla verga di Prospero non ha gettato che un debole riverbero nell’anima sua; a quel modo che un raggio di luce che penetra in un’oscura caverna non può nè illuminarla, nè riscaldarla, e non fa che sollevar dal suolo vapori pestilenziali. Tutta la dipintura di questo mostro è di una verità profonda e sostenuta; e, ad onta della deformità dell’oggetto, non ha nulla che offenda il sentimento, perocchè la dignità della natura umana non vi si trova compromessa.
La figura leggiera e trasparente di Ariele non permette di non riconoscere l’immagine dell’aria; nello stesso suo nome se ne vede l’allusione, come il nome di Caliban indica il pesante elemento della terra. Entrambi per altro non sono personificazioni allegoriche, ma esseri vivi, la cui esistenza individuale è ben determinata. In generale si può notare nel Sogno d’una notte d’estate, nella Tempesta, nella parte magica del Macbeth, finalmente dovunque Shakspeare si prevale della credenza popolare per ammettere la presenza invisibile degli spiriti, e la possibilità di entrare in comunicazione con essi; si può notare, diciamo, quell’acutezza del vero poeta, che penetrando nel mistero della vita interna della natura, e delle sue forze più nascoste, non ha a far nulla colle leggi di un meccanismo materiale. Ma non v’è che Dante, a cui sia stata compartita quest’acutezza nello stesso grado che a Shakspeare»
(Cors. di Lett. Dramm.)