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250 | la tempesta |
non ricever mai novelle di Napoli, se il Sole stesso non assume il messaggio, ripudiando la tarda via che segue il carro della Luna? Sì, se un fanciullo nascesse colà nel giorno di qualche avvenimento italiano, prima che a lui ne giungesse notizia, l’età ombrerebbe di peli il suo viso. Lungi dunque i nostri pensieri da quella donna che abbiamo condotta così lontano, e per cui fummo quasi inghiottiti dalle onde.
Seb. Ove vanno a parare queste parole? a che intendete? Sì, è vero, la regina di Tunisi è figlia di mio fratello; e per questo titolo le spetta il trono di Napoli.
Ant. Ma ella è a tale distanza da Napoli, che ogni cubito che ne la separa, che ogni onda che fra quelle due terre si frappone, sembra mugghiando dire: «Oh! come quella Claribel mi valicherebbe per ritornare a Napoli?». Obbliatela in Tunisi, e svegliatevi, che n’è tempo. Ditemi, se la morte fosse che avesse qui prostrati costoro, in che differirebbero le condizioni loro dalle presenti? E pure tal uomo v’è, che potrebbe reggere Napoli al par di questo re che dorme; cortigiani vi sono, che saprebbero perorar meglio di questo noioso Gonzalo; amici esistono per appoggiare un valente in un’impresa ardimentosa. Ah! perchè non avete l’anima mia? qual sonno sarìa questo per la vostra elevazione! M’intendete adesso?
Seb. Credo di sì.
Ant. E con qual cuore accogliete tanta fortuna?
Seb. Ricordandomi che voi discacciaste un dì vostro fratello Prospero.
Ant. Sì; e mirate come ben mi si addice questo mantello! quanta grazia acquistò sul mio dorso! I sudditi di mio fratello furono un tempo miei eguali; ora io sto sopra di loro.
Seb. Ma la vostra coscienza?...
Ant. Ah! in verità sarebbe da ridere: di che mi parlate? Se un tumore m’enfiasse un piede, allenterei la calzatura; ma porto mondo il seno di tal divinità. Dieci coscienze che s’elevassero fra me e il mio trono di Milano, potrebbero subire e geli e caldi, e sollioni e rovai, senza ch’io ne fossi per nulla scosso. Ecco vostro fratello, che giace ai vostri piedi: ei non sarebbe superiore a questa terra su cui si adagia, se fosse ciò ch’esser rassembra... estinto. Io stesso potrei, valendomi di questo ferro... con tre pollici soltanto di esso, addormentarlo per sempre. Imitando l’opera mia, voi potete immerger nell’eterno sonno quel vecchio loquace, quel vano cianciatore, che ci fa mai sempre scopo a’ suoi dardi. Allora il resto de’ cortigiani abbraccierà la nostra causa