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ATTO SECONDO
SCENA I.
Giardino di Bruto.
Continua la notte, schiarita di tratto in tratto dai lampi.
Entra Bruto.
Bruto. Olà, Lucio, vieni! — L’elevazione delle stelle m’impedisce di giudicare quanto manchi al giorno. — Lucio, dico... Potessi io pure dormire d’un sonno uguale al tuo...! Via, Lucio svegliati... svegliati...!
(entra Lucio)
Lucio. Mi chiamate, signore?
Bruto. Reca un fanale nella mia biblioteca, e ritorna.
(Lucio esce)
Bruto. Mestieri è ciò accada colla morte sua... e a spegnerlo null’altro potrebbe indurmi, che l’amore della cosa pubblica. Egli intende al trono, più non ne dubito; e quel che divenir possa una volta re, è ciò che mi dimando. Lo splendore del dì fa uscire dal covo il serpente, e avverte il passeggiero d’andar cauto per la via. Il simile potrebb’essere fra noi; e coronato che sia, un’arma è posta in sue mani, con cui potrà nuocerne a suo talento. L’abuso della grandezza deriva dallo sceverare dal potere la pietà, e sebbene per render giustizia a Cesare io mai non vedessi che le passioni in lui prevalessero alla ragione; pure è una verità d’esperienza, che l’umiltà serve di scala all’ambizione ancor giovine; che l’uomo con fronte modesta va fino alla cima della piramide, a cui poscia giunto, figge gli occhi nelle nubi, nè più cura gli umili gradi per cui a tanto vertice salì. Se tale fosse Cesare... se così oprar volesse... ebbene, in siffatto dubbio si prevenga, e si annientino in lui i germi della vipera che, una volta adulti, diverrebbero malefici per legge della loro natura.
(rientra Lucio)
Lucio. Il fanale risplende nel vostro studio, signore, sulla cui finestra trovai questo foglio suggellato.
Bruto. Torna ora al tuo letto, che non è ancora dì. Ma dimmi, Lucio, non occorrono dimani le Idi di marzo?
Lucio. Non lo so, signore.
Bruto. Vallo ad apprendere nel calendario, e fammene certo.