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Estenuato dal viaggio e dalle privazioni, giunse finalmente a Roma ed andò a chieder asilo al convento della Minerva, dove forse nutriva lusinga di trovare un po’ più di tolleranza che nel chiostro di S. Domenico Maggiore.

Ben presto però s’accorse, come anche sotto le vòlte del chiostro della Minerva non spirasse troppo propizia l’aria per lui. Delle sue gesta al convento di Napoli era trapelata qualcosa, e ben più se ne seppe, quando, dal priore del convento di Santa Maria Maggiore, si trattò di inviare l’incartamento del processo a Roma.

Bruno non pose tempo in mezzo e prima che la procella si scatenasse sul suo capo, smesso l’abito talare, lasciava, verso la metà del 1576, furtivamente Roma per volgere alla ventura i suoi passi.

Non senza rimpianti abbandonava egli l’eterna città, dove le memorie dell’antica grandezza, che si riscontrano ad ogni passo, avevano acceso d’entusiasmo la sua indole appassionata e poetica.



Gli anni della vita claustrale, servirono nonpertanto al giovane riformatore per approfondirsi negli studi. Questo del monastero è il vero periodo di raccoglimento e di apparecchio, dal quale dovranno più tardi svilupparsi poderosamente i germi delle nuove dottrine del frate di Nola.

In breve i poeti greci e latini gli diventano famigliari, nè la poesia lo trattiene da un lavoro più intenso e più serio. La molta e svariata dottrina, la conoscenza profonda dell’antica filosofia, onde Bruno più tardi si mostra pieno, indicano chiaramente che