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pagni. Perché nessuno conosca il loro sacrificio, il loro eroismo. Perché sulla loro condanna non si possano inscenare «speculazioni».

A ordinare la cancellazione dei nomi è stato l’ex-sovversivo, e l’uomo che eresse la sua fortuna politica in una condanna, su un processo clamoroso; l’uomo che il 25 novembre 1911 fu condannato a pochi mesi di prigione per aver sostenuto lo sciopero generale sabotatore contro la guerra di Tripoli, divelti i binari della ferrovia per impedire che i soldati partissero. Lui, disertore, ribelle emigrato.

Lui.

Benito Mussolini.

Ciò è vile, ciò è abietto. Glielo diciamo con molta calma, dolenti solo di dover scrivere dall’estero, dove si sembra al sicuro. Ma egli sa che queste cose gliele abbiamo dette e scritte in Italia, dalla prigione e dal confino, quando eravamo nelle sue mani. Possiamo perciò ripetergliele da Parigi.

Qual fine Benito Mussolini crede di raggiungere sopprimendo il nome dei condannati? Impedirci di esaltare le vittime, di concentrare l’attenzione dell’opinione pubblica su casi singolari? Impedirci di pubblicare nomi, e far apparire per condannati degli arrestati in attesa di giudizio? È probabile. Ma il calcolo è sbagliato. I combattenti rivoluzionari che Mussolini, con una procedura unica nella storia della reazione, ricaccia nell’anonimo, risorgono come folla,


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