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del pomeriggio eterno che comincia alle 11? Che cosa fai? Leggi. Sì, leggi, rileggi, ingurgiti per mesi, per anni. Poter almeno lavorare, come prescrive il codice Rocco. Ma «le leggi son...». Poter almeno scrivere, prendere un appunto. Ma no. Né penna, né lapis, né carta sono ammessi. Puoi ritrovarti per qualche ora con qualche compagno. Parli, parli. Poi anche il parlare ti stanca. E ti imprigioni nella tua prigione interiore. Alle quattro o alle cinque, dopo aver tremato o sudato o spasimato per la primavera e una fetta di cielo o di stelle, passa il controllo per la seconda, la terza volta. Conti i giorni passati dall’ultima visita (una al mese), pensi alla lettera settimanale. Sogni. Tutto è grigio e attendi. E se non sai attendere, impazzisci. Alla sera ti infili nella tua branda; guardi, se puoi, le chiazze sul muro bianco sporco, le iscrizioni dei tuoi predecessori, e preghi il sonno di venire presto a liberarti.
Ma il sonno stenta tanto a venire, in prigione.
E così di seguito, per una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette settimane come nella canzone dei bambini; e così di seguito, per mesi e anni.
Eppure, quando a Bauer e a Rossi chiesero se volessero domandare la grazia, la risposta fu:
— No.
«Dove sventola la bandiera italiana, quivi è la libertà», disse nel primo proclama africano De Bono.
Anche a Regina Coeli, a Civitavecchia sventola la bandiera d’Italia. E le vie d’Italia sono tutte pavesate.
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