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lia libera e fiera. Fascisti illusi, invertebrati, accecati, che credete che l’eroismo stia in Africa, giù il cappello dinanzi a questi eroi autentici, fatti pallidi dalla prigionia nella cella senza sole e senz’aria in cui il vostro duce, la vostra polizia li rinchiude per anni ed anni, sino alla turbercolosi e, per alcuni, alla morte. Giù il cappello.

Ecco qua, un padre: Michele Giua. Quarantacinque anni, professore universitario. Arrivato, arrivatissimo, a furia non di inchini e servilismi, ma di sgobbo in biblioteca e in laboratorio, e, in guerra, di rischi. Fronte austriaco, non fronte abissino.

I suoi peccati mortali? Questi: aver rifiutato il giuramento, aver distrutto «la carriera». Avere un figlio che si permette, in liceo, anno IX, di andare in galera. Aver visitato questo figlio in esilio. Avere scritto al figlio. Avere visto gli amici di questo figlio.

Quindici anni! E con lui arrestata la moglie per un mese intero, la madre di due figli piccoletti rimasti soli a casa.

Giua fa coppia con un giovane trentenne, Vittorio Foà. Giurista, economista, ha osservato sul vivo, nel fatto, l’ingiustizia fatta al lavoratore. La macchina del regime egli l’ha vista funzionare nei dettagli, con quegli occhi che è così difficile, in Italia, tener aperti.

Non organizzazione, non cospirazione, non attentati. Povero, Vittorio Foà lavorava da mane a sera. Arrestarono lui, il fratello, il padre. Il fratello ha perduto il posto; lui, 15 anni.

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