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contributo alla storia della moneta romana | 335 |
vano a 540 milioni di lire1, incaricando cinquanta cavalieri di accettarne la restituzione in tutto l’impero, e di lasciare al restitutore soltanto un decimo di quel che aveva posseduto2. Negò ai pretoriani il donativum promesso loro da Ninfidio, donativo che raggiungeva la somma di circa 400 milioni di lire, le quali avrebbe dovuto prelevare dalla pubblica imposta3. Questa severa economia lo rese odioso al popolo romano, male avvezzo con Nerone. A malgrado di questi sforzi per rialzare il credito dello Stato, la monetazione di Galba non è delle più perfette; la grande quantità di sesterzii e dupondii non è tutta di buona lega. Lo stesso si riscontra nelle monete di Vitellio. Del resto giova sorvolare su questo breve periodo di anarchia seguito alla morte di Nerone, il qual periodo apportò come legittima conseguenza il disordine nelle finanze.
Galba non ebbe il tempo di rimetterle; tale compito era riserbato al vecchio Vespasiano che per la sua prudenza e saviezza può paragonarsi ad Augusto. Compi una serie di atti intesi ad accrescere le entrate dello Stato: ristabì le imposte abolite sotto Galba, ne creò di nuove ed aumentò quelle delle Provincie, molte terre e persone che per frode erano esenti da imposte le costrinse a pagarle4. Coteste straordinarie imposizioni gli procurarono la taccia di avaro, dalla quale cerca di scagionarlo Suetonio, dicendo: Sunt contra qui opinentur, ad manubias et rapinas necessitate compulsum summa aerarii fiscique inopia; de qua testificatus sit initio statim principatus, professus quadringenties millies