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la allodiale proprietà di certi molini. Insomma, come acutamente osservava il Desimoni a proposito di fatti analoghi avvenuti fra il Comune di Genova e quegli Arcivescovi, la donazione qui non è che una formola notarile, ma nasconde una vera e propria espropriazione per pubblico interesse. E gli ultimi diritti del Vescovo sulle acque pubbliche reggiane furono poi del tutto espropriati dal Comune di Reggio precisamente al Maltraversi e tre anni dopo l’apertura della zecca, cioè nel 1236, essendo podestà uno dei più caldi fautori della politica di Federico II, il marchese Delfino Pallavicino. I tempi correvano così e s’imponevano inconsciamente anche a chi pareva volesse sottomettere l’Italia dei liberi comuni ai concetti di politica autocratica del secondo Federico.

Ma nel contratto d’appalto della zecca l’espropriazione comunale si vela sotto formule contrattuali anche più sottili e delicate di quelle che abbiamo citate per il gius d’acque. Forse la data assai recente del privilegio non acconsentiva che si usassero procedimenti più solleciti e rudi che avrebbero potuto offendere lo stesso imperatore, autore del privilegio; forse il buon accordo che pare regnasse sempre nelle relazioni del vescovo Maltraversi gran signore e altamente rispettato, come ce lo descnve la penna vivace del contemporaneo Salimbene, col Comune, importò una forma più riguardosa e più delicata; forse tutte due queste condizioni di cose concorsero nello stesso effetto. Certo è che nel contratto d’appalto del 1233 il vescovo è il vero concedente e l’appaltatore da lui direttamente ripete la concessione. Allegato al contratto fra vescovo e appaltatore v’è un atto importante non meno per la storia della zecca reggiana ed in genere di tutte le comunali italiane dello stesso periodo storico, che per la storia del diritto pubblico; e in questo atto, che modesta-