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32 arturo g. sambon

Carlo d’Angiò non fece meglio dello Svevo, e la monetazione erosa continuò tra lagnanze e querimonie. Del resto in tutta Europa prevaleva tanto, allora, questa abbondanza di lega nella moneta argentea, che il Carli, per esprimerne il rapido progresso ed i tristi effetti, acconciamente la chiamò Peste monetaria.

Regnando Ferdinando I d’Aragona, essendo nei denarelli aragonesi assai scarsa proporzione d’argento,1 e quindi considerevole il guadagno che la Regia Curia traeva da quella sleale monetazione, n’ era venuto di conseguenza che, nel Reame e negli stati circonvicini, continuamente si falsassero. Per la quel cosa i pubblici uffiziali, destinati a riscuotere le imposte del reame, ricorsero al re, dicendo che sui mercati era maggior copia di moneta adulterata, di quella coniata dalla Regia Zecca.

Ferdinando allora, per consiglio di Orso Orsini

  1. Ho trovato un interessantissimo documento del 1459, con cui Ferdinando I revoca la concessione, precedentemente fatta ad Antonio de Miraballis, maestro della zecca di Napoli, di coniare ogni anno mille ducati di piccioli della stessa lega di quelli coniati da Messer Insignier e da Salvatore de Miraballis. Della quale revoca è cagione che, avendo presa debita informazione, era venuto a sapere che, ai tempi di Salvatore Miraballis e di Francesco Insignier, si erano coniati piccioli di lega assai più bassa, di quanto era prescritto; di modo che, mentre ai tempi di re Ladislao e della regina Giovanna II, ogni libbra di piccioli conteneva diciassette sterlini di argento, ai tempi di Alfonso non ne conteneva più che dodici. (Camera della Sommaria-Comuni. Vo7. 7 fol. 70 e 78). In altra lettera del luglio 1459 Ferdinando riviene sa questa decisione e dice di volere che Antonio Miraballis «exercisca la zecca in modo et forma che la teneva et exercitava quondam Salvatore Miraballe et etiam Misser Sogner et maxime in lo bactere deli pizuli con dodece sterlini per libra non obstante altre nostre lettere in contrario facte perche questa he la nostra volunta et non volimo sia costritto ad fare più che he stato solito in li tempi passati vivendo la felice memoria del Re nostro patre.» (R. C. S. Curia 4, fol. 26).