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peratori d’Alemagna fra le guerre del sacerdozio e dell’impero. Se vero è, com’è verissimo, che in allora s’istituirono i Municipî, che si crearono i consoli preposti al loro governo, che si formò e nacque la libertà d’Italia; non è meraviglia che i Veneziani, federati nelle loro forti lagune, fatti ricchi e potenti dal commercio del mondo allora conosciuto, abbiano alzato lo stendardo dell’indipendenza, coniando per la prima volta nummi in propria testa e col nome dei loro Dogi: Sebastiano Ziani (1172), Orio Malipiero (1179), Enrico Dandolo (1192)1, per tal modo anticipando la determinazione, che per non dissimili cagioni, presero le repubbliche italiane, come vedremo nella seconda metà del secolo dopo, alla morte del secondo Federico.

Non sarebbe delle mie forze nè del mio intendimento di proseguire nella storia della zecca veneziana, diventata nazionale o trasformata in austriaca nel 1798; in cui la repubblica veneta, stata conquistata dalle armi francesi, fu ceduta con quasi tutte le Provincie che la componevano, all’imperatore Francesco II col trattato di Campoformio del 1797, dettato da Napoleone Bonaparte, in allora semplice generale comandante l’esercito francese in Italia.

Bensì dopo sette secoli di abbandono, ripigliar ne debbo il discorso, per registrare altro avvenimento straordinario e clamoroso della mia età, la perdita di Venezia fatta dall’Austria nella guerra del 1805 contro Napoleone, diventato imperatore dei Francesi e re d’Italia; e l’aggregazione che ne successe al Regno nostro ordinata da quel monarca; per le

  1. V. Bellini, Dissert. 1755; pag. 98, fig. I. San Quintino citato figura 9, 10, 11 della tavola II.