Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
382 | giuseppe castellani |
affliggeva le casse pubbliche e private. Con l’ipotesi della zecca unica o quasi, non si riescirebbe nemmeno a spiegare come le monete siano state battute col nome di una piuttosto che di un’altra città, laddove tutte le città dello Stato Pontificio vi avrebbero avuto uguale diritto, o per lo meno non ne sarebbe stata esclusa alcuna di quelle che in altri tempi avevano avuto il privilegio della zecca.
Io quindi ritengo che la molteplice varietà di Madonnine, Sanpietrini, Baiocchi e Quattrini che si conoscono coi nomi delle diverse città dell’ex-Stato Pontificio siano il prodotto di vere e proprie officine monetarie e non già varietà di prodotto dell’unica officina di Roma.
In questa mia idea mi conforta il fatto che gli stessi signori Gnecchi, parlando della zecca di Sanseverino, dicono che vi si coniò effettivamente moneta, conservandone le prove il Conte Servanzi-Collio. Anche le monete di Ascoli-Piceno, delle quali pure nel Saggio succitato si dice che furono coniate nella zecca di Roma, sappiamo invece dall’opera del De Minicis sulla Numismatica Ascolana, che furono effettivamente coniate in Ascoli, dove Carlo Lenti in forza di un chirografo Pontificio aprì e condusse la zecca che continuò a lavorare anche sotto la Repubblica Romana.
Nell’operetta poi del De-Minicis in una nota è riportato l’elenco delle città dello Stato Pontificio che ebbero la concessione della zecca nel 1797. Ora ohi ci sa indicare monete col nome di Fabriano, Filottrano, Loreto e Tolentino che pure sono comprese in detto elenco? E per qual ragione di queste città non vi sarebbero, se la coniazione fosse avvenuta a Roma? Il De-Minicis dice addirittura: “Le città di Fabriano, Filottrano, Loreto e Tolentino ebbero i chirografi