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tamente intuìto lo sbaglio, e rimproverava al suo grande amico di essersi inutilmente inceppato nelle pastoie tradizionali del «natura non facit saltum»; e il Kölliker aveva pure, poco incline ad accettare la spiegazione darwiniana della formazione della specie, messo avanti la possibilità d’una «eterogenesi», cioè d’una dissimiglianza eventuale fra i discendenti e i genitori. Altri critici avevano, a più riprese, con argomenti spesso molto serii, dimostrato l’insufficienza del principio della cernita naturale delle piccole variazioni individuali. Ma nessuno, prima del de Vries, aveva potuto dimostrare con egual rigore ed evidenza, l’esistenza delle mutazioni come fatto naturale costante e il loro significato come punto di partenza di nuove forme organiche.

Una parte dell’opera del de Vries è, come dissi, dedicata all’analisi della variabilità. Egli dimostra, come il Heincke aveva fatto per le Aringhe, che le piccole specie in natura si mantengono rigorosamente costanti nei loro caratteri, e che le modificazioni dovute all’opera dell’uomo nelle piante coltivate, siano esse ottenute con la semplice cultura, e con la selezione, o con gl’incrociamenti, non introducono mai nessun nuovo carattere; non trasformano essenzialmente le specie. In ciò il de Vries concorda con le affermazioni già fin dal 1859 espresse dal Godron, se non che egli le stabilisce su più rigorosa base, servendosi dei metodi statistici e le oppone trionfalmente alle opinioni dominanti dal Darwin in poi, in virtù delle quali erano rimaste nell’oblio e si credevano debellate tutte le altre, che non si potessero adattare ai nuovi dogmi.

«È assolutamente infondata» dice il de Vries, «l’opinione, che la variazione lineare» (cioè in un senso o nell’altro di un dato carattere) «sia illimitata, così che, per mezzo della selezione, nel corso di secoli o di millenni, si potessero produrre trasformazioni più importanti che non nel corso di pochi anni. Si tratta naturalmente, del miglioramento di ciascun singolo carattere considerato per sè stesso. Ma a ciò bastano, in condizioni favorevoli, 2-3 e, per solito non più di 3-5 generazioni. Una ulteriore selezione serve soltanto a mantenere la razza al punto da essa raggiunto, sempre che non intervengano speciali circostanze»1.


  1. Mutationstheorie, vol. I, p. 83.