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XVI | prefazione |
rotto del pubblico italiano condannerà senza dubbio e senz’appello queste stolte sconcezze all’obbrobrio ed all’oblio che meritano.
Mi duole di dover parlare così acerbamente, ma era, lo sento, mio stretto dovere.
Più avanti la poetessa (chiamiamola così, poichè lo vuole) lascia lo sterquilinio in che si compiaceva e si innalza, per quanto glielo permettono le deboli penne, ad una forma un po’ più elevata. C’è per esempio un “Inno a Venere” che, se nel concetto è della più abietta pornografia, nella esecuzione si può dire più conforme ai canoni della lirica; ed io, appunto per quel che ho detto di sopra, non lo disapprovo affatto. Qui si potrà parlare d’arte, ma nella prima parte del volumetto no, mai. Tutto al più ci potremmo rifugiare nella caricatura, nella rimeria giocosa, negli scherzi più o meno piacevoli, ma il giudizio, anche il più indulgente, sarà sempre di riprovazione. La stupidità può muoverci alla compassione, ma l’affettazione, la caricatura della stupidità, specie, se oscena, potrà muoverci al riso per un momento, ma non mai all’applauso sincero.