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di donne desiate, a l’età più tarda turbolenta ed agitata dell’uomo politico, a gli ultimi sospiri dell’esule chiamante invano nel nome della patria la donna amata e l’amorosa nel nome della terra lontana, sempre nella vita di Guido dura una nota specialissima e gagliarda di ardimento novo, di originalità chiara, di desideri inesausti, raramente dominati, spesso dominatori di ogni volontà. Egli passa nella vita fiorentina dell’ultimo dugento dolce come Cino, battagliero come Corso, superbo e disdegnoso come Farinata, severo come Dante: non seppe e non poteva essere saggio come Dino Compagni. E le sue rime, rimesse a più completa forma con l’aggiunta dei sonetti giovenili, segnano lo sviluppo dell’arte sua, parallelo a lo sviluppo della vita.

Quale era stata la vita politica italiana quando Guido nasceva? quali voci venivano a lui quando egli schiudeva l’anima a la poesia ed al sentimento d’amore? I popoli del settentrione non avevano serrate le Alpi magnifiche dinanzi al Cesare teutonico, quasi che a la maestà imperiale non si potesse proibire il passo per le terre romane: ma si erano chiusi nelle loro città, dimenticando le praterie feconde abbandonate alla devastazione de’ cavalli tedeschi: s’erano chiusi nelle città ove posava il carroccio, fieri di libertà cittadina, con quell’amore possente che rizzava più tardi i meravigliosi adornamenti delle cattedrali, con quello spirito gretto del comune, che dura ancor oggi velato da la fraternità di una patria sola. Ed un papa italiano, Alessandro III, benediva quella feconda gagliardia italica, innanzi a cui Cesare fuggiva seminando la via di Susa di pendenti cadaveri, incoscienti e pietosi arrestatori delle vendette comunali, come grossi frutti maledetti di quelle piante italiche, su cui passava fecondatore il soffio delle tempeste.

Invano la breve ferocia di Arrigo VI, «secondo vento di Soave» aveva tentato di domare l’Italia ribelle: invano il figlio della gran Costanza, il nato di Iesi, con la visione chimerica di un mondo imperiale, aveva lottato contro la Chiesa, che su molti comuni s’appoggiava, quando il cardinale Fieschi aveva sepolto sotto la tiara di pontefice l’amicizia per il gagliardo imperatore. Ultimo e principe quasi italiano, Manfredi aveva ridestato il pensiero ghibellino che in una sùbita riscossa aveva condotto i fiorentini a Montaperti: indi, caduto a Benevento, aveva lasciato uno strascico di lotte piccole e feroci fra gli avversi comuni. Ed in mezzo a lo strepito delle armi sorgevano le prime voci della poesia italiana, timido fiore seminato da mani imperiali e culto e raccolto da mani di notai e di signori e di mercatanti. Era già sfiorita fra la rovina sanguinosa quella poesia di Provenza che nell’adorazione convenzionale della donna nascondeva i fremiti dell’amore dei sensi: erano passati il canto della contessa de Dia ed il desiderio di Girautz de Borneilh: ma erano anche discesi in Italia con il profumo delle ultime rose, portandone quasi la sensualità ascosa nella morbidezza delle foglie. La poesia italiana, affascinata da tanta squisitezza di rime, moveva passi incerti e non sapeva staccarsi ancóra del tutto da la prima inspiratrice. Anche Guido Cavalcanti raccolse questa eredità di poesia d’imitazione e nella giovinezza, quando non ancóra la forza dell’intelletto lo traeva a concezioni ed espressioni nuove, risentì nelle parole e nei concetti la tradizione provenzale. Tali sono i sonetti del trattato di ben servire, i quali riuniscono l’imitazione di Provenza e la corrente secondaria della poesia toscana e bolognese.

La giovinezza del poeta si rivela in tutta la tessitura di questo trattato,