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SONETTO XXXVII.
Tu pur risplendi à i boschi, à i monti, à i rivi,
Che pregiar non ti pon di ragion privi
Mentr’io quì sola e mi querelo, e ploro.
Deh torna à me, che ’l tuo bel viso adoro
E lunge scaccia i pensier gravi, e schivi;
Fuggi gli horrori, ov’à mio danno hor vivi,
E me consola, che languendo moro.
Rasciuga gli occhi homai dal pianger lassi.
Ahi che le Fere ti faran più fiero
S’ivi più tardi, e viè più freddo l’onde.
Più selvaggio le selve e ’l cor’ altero
In cui durezza natural s’asconde
In sasso al fin si cangierà tra’ sassi.
SONETTO XXXVIII.
Il liquefatto vetro à la man cede,
Qual più brama l’Artefice prudente
Forma vaga, e gentil prender si vede.
Così mentre vivesti entro l’ardente
Fiamma, ch’io già destai, forma ti diede
Amor più, ch’altro mai Fabro possente
De la tanto appo lui gradita fede.
Ma come perde ogni calor in breve
Il fragil vetro, e di leggier si spezza
Spargendo al fin l’altrui fatiche à terra.
Così de la tua fè l’ardor fù lieve,
Debil percossa poi d’altra bellezza
Spezzolla e ’l mio sperar chiuse sotterra.
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