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SONETTO CLXI.
Nè più risuoneranno i miei sospiri;
Nè fia mai, che dolente, ò lieta io miri
La fronte, ò gli occhi ove mia morte alberga.
Altri amando di pianto il volto asperga
Sotto ’l misero incarco de’ martiri.
Accesa l’alma mia d’alti desiri
A più bel volo, e più felice s’erga.
Nè lusinga d’Amor fia, che l’offenda
Che d’haverlo seguito homai si pente,
E del suo vaneggiar le ’ncresce, e duole.
Ah che saldo voler può quanto vuole.
E chi vede ’l suo fallo, e non l’ammenda
La celeste pietà sdegna sovente.
SONETTO CLXII.
Quel foco spense in me, ch’arte, od ingegno
Non estinser giamai, non giusto sdegno,
Non ragion, che già d’ira il cor m’accese.
Ei mi sottrasse al fin, ei mi difese
Da i colpi, onde già fui misero segno;
Per lui scevra n’andai dal giogo indegno,
Per lui forza, e vigor l’anima prese.
Gradita libertà godo per lui,
E se già piansi, hor rido; e ben conosco
Qual (sua mercede) io son, qual (lassa) fui.
Son del mio cor gli antichi ardori spenti;
Ma duolmi (ohime), ch’à l’aer cieco, e fosco
Rinovan l’ombre, e i sogni i miei tormenti.
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