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Deh mira quelli, cui furor di Marte
Lunge discaccia dal natìo terreno,
O trahe cinti di ferro à gli empi in seno
C’han del Mondo (sua colpa) hor sì gran parte.
Alhor per te medesmo i pianti amari
Rasciugherai, alhor fien dolci i mali.
Tu i ricchi, tù i felici da’ mortali
Togli e fien gli altri à la tua sorte pari.
Dolce è ’l lagnarsi alhor, che ne i lamenti
Consorti habbiam, e quei, ch’allegro il volto
Altrui non vede alhor, che ’n pene avvolto
Si scorge, chiama i suoi desir contenti.
Ma tù famoso Bisaccion, che tanto
Intendi e sai, col tuo saver profondo
M’acquista fè; che de gli affanni il pondo
Serba la gioia; ed è nel riso il pianto.
Di tù, che quei, che più di gemme splende
Talhor si duol; ch’alterna il mal, e ’l bene
Il Ciel. che quel, che più beàto huom tiene
Con la Fortuna sua spesso contende.
SONETTO CVI.
Ch’ancor da lunge il sen m’ardete. quando
Fia, che l’avido sguardo in voi girando
Soavemente ogni mia doglia affrene?
Celesti rài s’unquà da voi mi viene
Mercè di quel dolor, che lagrimando
L’alma sostien. sarà diletto amando,
Che pareggi il piacer de le mie pene?
Folle che spero? ohime benche vi piaccia
Far l’honeste mie voglie un giorno liete
Come potrò gioir se non hò core?
Deh |