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202 | iii - i rimatori pisani |
né ’n mar candelle
d’aigua, quant’eo, no ha, in tal pentèro.
Te va’, dogliosa mia canzon, mostrando
e mettendomi in bando
di tutte parte, u’ pregio ed onor regna,
e ti sovegna
d’esto far: mai gir sempre seguitando.
III
Esprime il dolore che sente a veder governata Pisa da tali
che non curano il bene e fanno strazio della patria.
Se doloroso a voler movo dire
lo desplagire — che mec’ha contanza,
non alcun delmi tornar a fallanza,
che soverchianza — ciò mi fa scovrire.
5E, pur volendo, non poria covrire
l’angoscia, che ’l meo cor doglioso serra,
che d’ogne parte gioi’ mi veggio torto,
e sempre accorto — a darmi ’l contrar erra.
Dico isperato di mai son gioire,
10e de languire — grand’ho siguranza,
poi tien no’ gente di tanta arroganza
in doloranza — ch’eo ne voi’ morire.
Chi di guardar no’ non solia né ardire
avere ’n parte di mar né di terra,
15or assai men ch’un om’pregiamme morto:
si gran conforto — in està pres’han guerra.
E chi ne ha fatto ciò? Il ben fuggire
e ’l mal seguire — di quei che possanza
più ’n Pisa aviano di menar la danza?
20No l’arditanza — né ’l saver ferire
di chi ditt’ho, senza cioè fallire.
Perché montati in alta furon serra,
che non mai vis’è lor falli diporto,
né disconforto — non, dicon, li sterra.