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198 iii - i rimatori pisani

Che là, u’ tutta gent’hami fallita,
e più chi di me più mostrava festa,
95chi dett’ho, non lassatasi la vesta,
per potersi a la persona dar campo,
per pioggia né per vento né per lampo
di pensar ciò né far vesi gechita.
Poi me condusse in si crudele errore,
100che mi facea del corpo il cor odiare,
un’ancia non avendo del cantare
di suo gravoso e sprefondato pondo:
or de’ ben dirupare ’n nel profondo
chi di tal carco addoss’have la soma
105e cui afferrat’ha ben per la chioma,
si’ certo ch’onni i’ tolle e’ ha valore.
Miri, miri catuno e ben si guardi
di non in tal sommetersi servaggio,
ch’adduce noi’ e spiacer e danneggio
no e tutto quanto dir puosi di male,
che questa vita tolle e l’eternale.
Oh quanto assaporar mei’ fora cardi!
O miseri dolenti sciagurati,
o netti d’allegrezza e di piacere,
115fonte d’onni tristizia possedere,
o spenti di vertù lutt’e di luce,
ponendo cura bene, o’ vi conduce
il vostr’amore, c’ha’l malvagio conio,
odiar via più l’areste che demonio;
120ma non tanto potete, si v’ha orbati.
Se de la mente gli occhi apriste bene
e lo ’ntelletto non fussevi tolto,
vedreste chiaro il loco ’ve v’ha ’nvolto,
ch’è tanto laido e disorrato e reo:
125non savrest’altro dir che: — Merzé, Deo,
si doloroso è tutto che i’tene!
Amor (ti chiamo per lo nome, quanto
per l’operare parmi ben so chente),