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corressero questi, loro si diede come anche si continuò ad usare di poi, abbondantemente a mangiare perchò fossero più pesanti al muoversi, e riuscissero quindi di maggiore sollazzo al popolo. Dessi corsero dall’arco di Domiziano, fino alla chiesa di S. Marco in cima al corso, in tutta furia, ed in mezzo agli urli ed agli schiamazzi di tutto il popolo di Roma, mentre il Santo Padre stava spettatore dello spettacolo da un balcone riccamente addobbato, ridendo di cuore desso pure. Si potrebbe dire che il fatto della parte che prendevano a queste corse i Romani stessi, vecchi, giovani e ragazzi, togliesse a quella degli Ebrei il carattere della umiliazione, se non che vuolsi avere presente come quel trattenimento che dai Romani era ritenuto quasi giuoco olimpico, ed era volontario, equivalesse per gli Ebrei ad un’onta. Chiunque sia stato spettatore ai giorni nostri delle corse di Roma, dove ora corrono cavalli e non più Ebrei, chiunque abbia udito di quali grida, di quali fischi, di quali imprecazioni, quel popolo vivace e bollente copra gli animali che si slanciano nella carriera, potrà facilmente imaginarsi a quali insulti, a quali maltrattamenti dovessero andare esposti, in quei tempi semibarbari, i poveri Ebrei condannati a correre sul corso.

Più tardi il popolo di Roma non volle per nessun conto andar privo dello spettacolo della corsa degli Ebrei, e trovo nella «Roma nova» di Sprenger del 1667, che gli Ebrei dovevano correre nudi, unicamente con una fascia attorno ai lombi, e l’autore dice senz’altra osservazione, «primi a correre sono gli asini, quindi gli Ebrei, poscia i buffali, ed ultimi i barberi.»

Andarono gli Ebrei di Roma per ben due secoli sottoposti a questa enorme umiliazione, finchè a forza di supplicazione e di preghiere ottennero fosse loro con editto pontificio condonata. Clemente IX, Rospigliosi, ne li liberò nel 1668 imponendo loro a vece dell’obbligo di correre, un tributo annuo di trecento scudi, ed a vece di precedere la cavalcata del senatore, di dovere prestare omaggio