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città mi fermai presso un’antica chiesa, sotto alcune piante, fissando lo sguardo sul mare verso Selinunte, il quale si trovava alla distanza di sei miglia cirta. Orione splendeva di nuovo di luce purpurea, ed il cielo era di quella indicibile limpidezza che solo il vocabolo greco etere, vale ad esprimere.

Si scende da Castelvetrano per sei miglia verso il mare, a traverso campagne ben coltivate, e già da quella distanza si scorgono le rovine dei tempii di Selinunte. Per dare un’idea della loro imponenza, basterà quanto sono per narrare. Non era ancora giorno ben chiaro, ed io vedevo sulla sponda del mare una città, dalla quale sorgevano parecchie torri rovinate, ed una particolarmente, alta e sottile, la quale campeggiava nello spazio. Dissi al Giuseppe che sarebbe bene portarci a quella città, la quale mi pareva ragguardevole, e dove mi sorrideva la speranza di trovare un gelato. Se non che il Giuseppe sorrise, e mi rispose: «Quelle che a voi, signore, paiono una città, sono le rovine degli antichi tempii di Selinunte.»

La vista di quelle rovine sulla sponda del mare, in una regione totalmente deserta, non ha l’uguale al mondo, ed ivi per la prima volta ho compreso quanto si voglia accennare allora quando si parla di rovine classiche. Siano a distanza, siano contemplate da vicino, questi ruderi della antica grandezza greca, producono una impressione di stupore, di rispetto, quasi superstizioso. L’aspetto di quelle rovine, circondate da una lussureggiante vegetazione, è sommamente pittorico, tanto più dacchè la maggior parte di esse conservano una forma, un significato. Si vedono triglifi, metope, frammenti di fusti di colonne scannellate, capitelli dorici di dimensioni colossali, però tuttora graziosi di forme e di profilo; e tutti quei ruderi giacciono dispersi, confusi, come le zolle di un campo smosso dall’aratro. L’azione del tempo passò sovra di essi, e li accumulò qua e là in gruppi confusi, e bizzarri. Un certo ordine regna tuttora in qualche punto, di quell’opera di