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Ivi giungono di prima mano i venti di Cartagine, ed il battello che salpava allora appunto per l’Africa, in dodici ore mi avrebbe portato a Tunisi, in terra punica.
Arrivammo verso il mezzodì, con un sole propriamente insopportabile a Vita, poverissimo villaggio perduto nella solitudine, abitato da poverissima popolazione, abbronzata di colorito con i cappelli crespi quanto i Negri, la quale parlava un dialetto del quale non capivo una parola. Scendemmo presso un calzolaio, mangiammo quel poco che Campo ci potè procurare, e montammo di bel nuovo a cavallo per arrivare a Castelvetrano, dove dovevamo passare la notte. Per quanto bella fosse allora la contrada che percorevamo, la grande stanchezza c’impediva di trovarvi piacere. Dopo un cammino di dieci miglia tedesche, arrivammo finalmente a Castelvetrano, ma io non mi trovai in istato di scendere di cavallo, fu mestieri mi portassero. Colla dura prospettiva di dovere all’indomani fare di bel nuovo undici miglia, rotto qual mi trovavo in tutte le membra, non mi ritenevo in istato di potere sopportare quella marcia faticosa, se non che, dovetti far esperienza che l’uomo è capace di tutto quando vuole seriamente e che colla costanza si riesce a vincere anche la testardaggine di un mulo; imperocchè all’indomani feci quegli undici miglia senza difficoltà, e gli ultimi dieci fino ad Agrigento, quasi con piacere. Fu meno fortunato il mio compagno di viaggio, il quale colto fin dal secondo giorno da un colpo di sole, fu malissimo di poi nella zolfatara di Alcara, e salvato unicamente per la prontezza di un salasso, dovette stare a letto ammalato varie settimane in Palermo.
Partimmo il 6 settembre all’alba da Castelvetrano, per recarci a Selinunte, sul mare africano. Il mattino era di una bellezza quale non si può trovare che in Grecia, od in Sicilia. Sarebbe impossibile descrivere con parole la magnificenza e la varietà delle tinte del cielo a levante. Precedevo gli altri per godermi senza essere disturbato la bellezza di quel fenomeno, e giunto alla estremità della