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feudale verso di quello; militi, i quali nella loro qualità di vassalli erano vincolati a prestazione di servizio militare; finalmente servi della gleba. Tutti i vassalli della categoria di militi i quali abitavano in un castello, obbedivano ad un contestabile. Per tal guisa l’abate aveva di continuo un piccolo esercito a sua disposizione; più tardi prese pure ad assoldare bande, al pari di tutti gli altri baroni, e quando era uomo di guerra, portava desso stesso le sue truppe in campo a cavallo, colla spada in pugno. Le continue contestazioni con i vescovi vicini di Tivoli, di Preneste e di Anagni, le lotte con i baroni dei dintorni, davano frequentemente occasione ad imprese guerriere. Soventi volte nella tomba, a fianco dell’abate morto, si deponeva la spada.

Appartenevano questi, anche di quando in quando, alle famiglie distinte della campagna di Roma, e può citarsi fra gli altri l’abate battagliero Lando, nipote d’Innocenzo III, della cospicua famiglia dei conti di Segni, il quale morì nel 1244. Intanto nè il dispotismo ferreo degli abati, nè il rigore della regola dell’ordine, valevano ad impedire di quando in quando nel monastero i più gravi disordini. Le vicende del papato in Roma si riproducevano in iscala minore nella badia di Subiaco. I monaci parteggiavano nel modo il più scandaloso, e l’ambizione sfrenata di taluno, prendeva a dileggio tutte le costituzioni di Benedetto. Dopo la morte dell’abate avvenuta nel 1276, il monaco Pelasgio sorprese il monastero coi suoi partigiani, a mano armata, nell’intenzione d’impadronirsi del potere temporale; cacciò i monaci che gli opposero resistenza, e dopo di avere saccheggiato il monastero, si ritirò in Cervara, regione deserta e solitaria, superiormente a Subiaco, dove si mantenne armato per ben quattro anni, durante i quali il monastero rimase vuoto. Il Papa aveva pure nominato un nuovo abate, e lo aveva pure spedito con un piccolo esercito, ma non fu che dopo un formale assedio, che riuscì a questo di ridurre al dovere il monaco ribelle.