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barbica alle quercie, le circonda, le stringe al paio dei serpenti il Laoconte, quasi volesse soffocarlo in un abbracciamento erculeo, e strapparle dal suolo; sale per tutti i rami, e giunge fino al vertice della pianta, dove hanno ricetto gli uccelli selvaggi della foresta.

Avevamo camminato per tal guisa alcune miglia, assorti sempre dalla contemplazione di quel bello spettacolo. Il nostro compagno di Astura ci aveva portato sulla strada, la quale doveva condurci di bel nuovo alla spiaggia del mare, e ci aveva lasciato colà, dove il bosco diventava meno fitto, dicendoci che fra poco ci saressimo trovati nella macchia ed avressimo veduto il mare. Continuammo a camminare allegri fra i mirti e gli olivastri, quando tutto ad un tratto ci trovammo di fronte ad una mandra di un buon centinaio di tori. Ci fermammo tosto. Uno dei tori si fermò a sua volta, quasi stupito; alzò la testa, ci contemplò con serietà tutta maestosa, si staccò dal branco, e ci venne all’incontro. In quell’istante, il pittore mio compagno fece un movimento col maledetto suo ombrello bianco, ed appena aveva desso ciò fatto, che il toro diventò furioso, spiccò un salto; e tosto tutto quanto il branco si pose in moto verso di noi. Una nube di polvere si alzò tosto nel bosco, e mentre fuggivamo presi da gran timore, dovevano pure in quel denso polverio esser belli a vedere quegli stupendi animali. Riuscimmo ad arrivare nel fitto del bosco, e colle mani insanguinate per le spine, ci cacciammo fra altri cespugli, mentre dietro di noi continuava il polverio, si scorgevano luccicare le corna dei tori, e si udiva lo scricchiolio dei rami che infrangevano nella loro corsa.

Non ho visto mai il terrore scolpito sopra una fisonomia umana come su quella del mio compagno, e probabilmente non facevo io guari più bella figura. Finalmente tutto fu silenzio intorno a noi, eravamo pervenuti nel fitto del bosco, e non si scorgeva più nulla. La mandra selvaggia aveva proseguito la sua via verso il mare. Continuammo a nostra volta a camminare nella foresta, dopo