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ricordi di londra. 35

a lunghe file di pianoforti, di carrozze, di mobili, di vasi di fiori, e si va a smarrirsi fra gli alberi e le caverne d’un bosco popolato di selvaggi d’Africa e d’Oceania, sparsi alla caccia delle fiere, o raccolti a famiglie intorno ai focolari, o appostati dietro i sassi nell’atto di pigliarci di mira colle freccie. Si va su per una scala; ci si allungano davanti gallerie a perdita d’occhio, dove si possono far delle miglia in mezzo ai quadri ad olio, agli acquerelli, alle fotografie, ai busti d’uomini celebri. E sopra queste, altre gallerie a mille giri, dalle quali, guardando fuori, si abbraccia con un colpo d’occhio la bella campagna della contea di Kent, e guardando giù, tutto quel fantastico giro di sale, di giardini, di cortili, di teatri, di trattorie; la gente che sale, scende, e s’affolla ai teatri, e sparisce e riappare in mezzo alle piante e alle statue; e su quella prodigiosa varietà di forme, di colori e di spettacoli, su quel compendio di mondo sul quale s’incurva un cielo di cristallo, la luce del sole che irrompe e saetta da tutte le parti, gettando iridi, lampi e sprazzi di scintille d’argento lungo le pareti e le vòlte azzurrine.

Tornando a Londra mi seguì un caso che mi fece rimpiangere amaramente di non sapere l’inglese. Nel vagone c’era un signore che fumava la pipa: io accesi l’ultimo sigaro virginia d’una reliquia di mazzo che avevo portato da Parigi. L’avevo appena acceso, quando entrò una signora. Io faccio un atto come per domandarle se il fumo le dà noia; essa mi risponde qualche parola in inglese, che dall’espressione del suo viso mi pare che significhi: — Sì, mi dà noia, — Raccolgo tutta la mia forza di sacrifizio e butto via il sigaro dal finestrino. Non era ancora cascato in terra che l’uomo della pipa mi afferra il braccio e mi fa capire in francese che la signora aveva risposto che anzi il fumo le piaceva. Io guardai il finestrino, la mia mano vuota, la signora che rideva, e venni men così com’io morisse.