perdo la pazienza, salto giù, gli urlo all’orecchio: — Mulo! e me ne vado da me. Capii dopo che non m’aveva voluto condurre all’albergo perchè era troppo lontano. Me ne vado da me! ma come? ma dove? Confesso che in quel momento mi sentii scoraggiato. Quella immensità della stazione di cui non trovavo l’uscita, il non sapere dove sarei andato a battere del capo, quel primo incontro sfortunato che mi pareva un cattivo augurio, il peso della valigia che m’impediva il passo, l’umidità che mi sentivo addosso, la notte, la confusione mi diedero un sentimento improvviso di tristezza e di sgomento. Dopo aver errato un po’ a casaccio, infilai una porta e mi trovai fuori. Mi parve d’essere caduto nel caos. Uno strepito di carrozze che non vedevo, un fischiar di treni di strada ferrata che non capivo dove passassero, una confusione di lumi sopra e sotto, da tutte le parti e a tutte le altezze, una nebbia che non mi lasciava raccapezzare nè forme nè distanze, e un va e vieni di gente che pareva che fuggissero; tale fu il primo spettacolo che mi si offerse. Ciondolando, zoppicando, percorsi un tratto di strada, come uno stupido, colla testa non so dove; poi, non potendo più reggere la valigia, la posi in terra e mi fermai. Fortuna volle che, alzando gli occhi, vedessi un fanale colorito con su scritto: On parle francais. — Era un albergo; tirai un gran respiro, ripresi il mio fardello ed entrai timidamente coll’aria del villan quando s’inurba. Una signora di cattivo umore, ch’era la padrona, udite le mie prime parole, chiamò il cameriere al quale domandai se c’era una camera. Il cameriere facendo ad ogni parola francese una contrazione che pareva uno sforzo di vomito, e guardandomi da capo a piedi con quell’aria tra di protezione e di diffidenza che è propria della sua schiatta, mi rispose che la camera c’era; ma.... Ma — soggiunse — la facciamo pagare cinque shilling, — e mi guardò un’altra volta da capo a piedi con aria sospettosa. Veramente il mio vestiario era tale da scusare quella diffidenza. Nondimeno mi sentii invaso