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io spero, per farvi Egli del bene, per favorirvi della medesima misericordia e grazia.”
In questo punto il lattaio entrò con due secchie piene di latte, ed essendosi fermato alquanto dietro la porta socchiusa, potè udire la fine del dialogo.
“Benedizione e grazia su di lei,” disse; “è molto vero: ella abbandonò una buonissima casa, col solo divisamento di aiutare ed alleviare il nostro corpo e la nostra anima, vivendo con noi e consolandoci colle sue letture e co’ suoi discorsi. Ahimè, signore! non vi sembra ch’ella stia molto male? Ah io tremo di non averla qui molo tempo ancora.”
“Lasciate questo alla cura del Signore,” disse Elisabetta; “tutte le nostre ore sono nella sua mano; e beati noi, che ne sia così. Io desidero d’andare; e voi, padre mio, non desiderate di rimettermi nelle mani di quel Dio che a voi mi diede in prima?”
“Oh figlia! Interrogami su qualunque altra cosa, ma non su ciò;” rispose il dolente genitore.
“Io so però,” soggiunse ella, “che voi desiderate la mia felicità.”
“Oh sì! sì!” rispose egli. “Che il Signore faccia di te e di noi ciò che gli piacerà.”
Io allora le domandai da che dipendesse principalmente la sua presente consolazione, rispetto all’avvicinarsi della morte.
“Dalla mia confidenza in Cristo. Quando m’esamino, scopro in me molti peccati, infermità, ed imperfezioni che offuscano l’immagine di Cristo, che vorrei vedere sempre viva nel mio cuore. Ma quando mi rivolgo al mio Salvatore, Egli mi si rappresenta immensamente amabile; non avvi una sola macchia nel suo aspetto. Io penso alla sua incarnazione, e questa mi riconcilia coi patimenti del mio corpo, in modo che non li sento quasi mai, giacchè anche Egli n’ebbe come e più di me. Io penso alla sua tentazione, e credo ch’Egli mi può assistere quando io pure son tentata. Allora io penso alla sua croce, ed apprendo a portarla mia. Penso alla sua morte, e m’invade il desio di morire al peccato acciocchè questo non abbia più dominio sopra di me. Qualche volta