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     Del croceo sole e del purpureo mare,
     Tràtta se l’era; con immoto ciglio
     Ne contemplava l’infantil sembiante,
     Gli adescanti occhi, i bruschi moti; e tutti
     Passando i veli, con intensa brama
     Indovinare, investigar godea
     Le picciolette membra palpitanti
     Fra ’l terrore e il piacer d’esser ghermite.
     Qual frotta oscura di sinistre arpie
     Turbò l’ora beata, e le soavi
     Mense bruttò che c’imbandía l’Amore?
     Si rovesciò dall’atre ali travolta
     L’ambrosia coppa, ove l’incanto avrei
     D’una seconda giovinezza attinto;
     Si offuscò l’aurea luce, e delle oscene
     Disturbatrici, ancor che lungi, io sento
     L’alito impuro e il crocidar maligno.


XI.


Su la negra foresta, in rosee cime,
     Ch’altri non mai d’alto vestigio impresse,
     Erto sopra sè stesso a vol sublime,
     Un magnifico tempio egli l’eresse.

Squallide da’ montani antri, dall’ime
     Valli corsero a lui l’anime oppresse;
     Ed egli audace, in fremebonde rime
     Dolori immani, ardue speranze espresse.

Ma quando assorto più ne la benigna
     Opera il redivivo animo ardea,
     Ella a’ casti delubri erasi tolta;

E nella sua fragilità maligna,
     Come un re nella sua porpora, avvolta,
     Divinamente perfida ridea.


XII.


Tendete, eroi de la viltà, le dotte
     Reti nel fango, ove sortiste il regno.
     Piagato e inerme i lacci infami io spezzo,
     E da voi scevro, in libertà sdegnosa,
     Puri serbar gli alti ideali ho fede.
     Tigre così, che nella schiena infissi
     Del cacciator porta gli strali, irrompe
     Immemore di sè verso il covile
     A campar dal nemico i figli suoi.


XIII.


Dunque non mai t’aggiungerò, divina
     Fuggitiva bellezza, onde tutt’ardo!
     Già l’arco de’ gagliardi anni declina,
     Stanco ansa il petto e si rabbuja il guardo;
     Pur, d’affanni sdegnoso e di ruina,
     D’erta in erta t’inseguo ancor che tardo;
     Ma quanto incedo più, quanto più sorgo.
     Più erte vie, ghiacci più aspri io scorgo.

Cadrò, nè guari: omai sul crin mi aleggia
     L’aura del fato. O fulva aerea belva,
     Cadrò, ma lungi a la beata greggia,
     Remoto agli antri ove il cinghial s’inselva:
     Sopra una rupe ch’alto al ciel torreggia,
     Inospite al pastor, nuda di selva,
     Presto mi troverai, solo, non vinto,
     Su’ passi miei, presso a’ tuoi nidi, estinto.


XIV.


Pende il ciel torpido, immoto
     Sul mar grigio dell’oblio;
     Navigando al polo ignoto
     Arde e sanguina il cor mio.


Per l’immenso, algido voto
     È uno spasimo d’addio....
     Al nessun, questo è il mio voto.
     Soffra mai quanto soffro io!

Dice il Sole: Anima ardita,
     Vincerai, riposerai;
     Sarà tua l’età novella.

Dice l’Ombra indefinita:
     O triste anima rubella,
     Gloria mai, riposo mai!


XV.


O care mani, che chiudeste gli occhi
     Della mia santa vecchiarella, mani
     Pietose, che lavaste il tenue corpo
     Irrigidito da la morte, e cinto
     Di bianche vesti, con geloso rito
     Lo componeste ne la plumbea bara;
     Mani soavi, che tergeste il pianto
     Che dirotto piovea da le mie ciglia;
     Magiche mani, le cui ceree dita
     Hanno baci ineffabili e parole
     Divine che il mio cor solo comprende,
     Su le palpebre mie lievi passate,
     Posate su le mie palpebre stanche,
     Si che a la vostra placida carezza,
     La vecchierella mia sognando viva,
     Tranquillamente, un’ora almeno, io dorma!


XVI.


Perchè fra le pensose urne ti attardi,
     Anima mia? Spargi di fiori il suolo,
     E tendi alle vivaci aure l’orecchio.
     Non odi! Irato a la corrosa sponda
     Mugghia il gran fiume, ed alla pace insulta.
     Passa, o torbido fiume e al mar t’affretta:
     Di là dal mare il regno mio risplende.

Quanta ruina di superbe moli
     Nella ruina de’ tuoi flutti avvolgi!
     Regali orgogli, marziali insegne,
     Glorie d’un dì, trofei d’un’ora, immani
     Giganti che usurpar credeano il cielo,
     Van da le tue vincenti acque travolti
     Al mare eterno, al polo oscuro, al nulla.
     Passa, o torbido fiume, e al mar t’affretta:
     Di là dal mare il regno mio risplende.

Ecco, da’ provocati orti del sole,
     Dall’aurifere conche, ove raccoglie
     Perenne infamia il mercator britanno,
     Dall’isola sublime, ove in un giorno
     Tante stragi espíò l’orgoglio ispano,
     Dall’Idee balze, dalle armenie prode,
     Giù dall’Amba esecrabile che il sogno
     Mirò d’una perversa anima e il moto
     Di diecimila itali cori infranto,
     Disfrenati balzar torrenti e rivi
     D’umano sangue, e con frequenti assalti
     Scalzare i troni e disertar le valli.
     Passa, o torbido fiume, e al mar t’affretta:
     Di là dal mare il regno mio risplende.

Novo furor, più scellerata strage
     Cresce i tuoi flutti e il petto mio funesta.
     Qua e là da una fiamma atra lambite
     Livide membra, umani aspetti io miro
     Rotar, balzare, inabissarsi in preda
     A la corrente sanguinosa: braccia
     Ferocemente contro al ciel protese;
     Occhi atterriti che guardan la morte;
     Petti squarciati, spalancate bocche,