Pagina:Rapisardi - Poemi liriche e traduzioni, Remo Sandron, 1911.djvu/536

Odimi, or ora ho visitato: al bianco
Suo capezzal mi son librata, e il fresco
Alito de la sua bocca aspirando,
Le ho posato su la fronte un bacio,
Sì lieve che non fu dal sonno udito,
Sì dolce che nel sonno ella sorrise.
Rasserénati, o caro: a’ generosi
Dovere alto è la vita. Altri, tu ’l sai,
Dolori ha il mondo; altre battaglie ancora

Ti aspettano: sii forte; e non che vane
Lacrime prodigar sul mio destino,
Terger le altrui, vivere altrui procura!

     Così dicea l’amata donna; e un bacio
Su le labbra imprimendomi, le braccia
M’avvolse al collo. Ne la dolce stretta
Mi ridestai; mi volsi intorno; il pianto
Tersi; ma su le labbra e dentro al core
Il bacio, il gelo della morte io sento.


IL SOGNO DEL GIGANTE


I.


Su che bizzarro Pegasèo, da quale
     Astro ei piombò, da qual baratro emerse?
     L’aspetto suo non par cosa mortale.

Copron le membra sue vaste e diverse
     Quattro jugeri appieno, in secolare
     Sonno, non certo senza sogni, immerse:

Suona il respiro suo, qual ne le chiare
     Notti di luna presso al lido biondo
     Mormora con egual palpito il mare.

Quando avrà fine il suo dormir profondo!
     Qual segno aspetta? Qual mirabil opra
     Venne in terra a compir? L’ignora il mondo.

Pria stupito indi audace, a lui di sopra
     Sgalletta il vulgo, e in vane inchieste, in vane
     Fiabe aguzza l’ingegno e il tempo adopra.

Quand’ecco a illuminar le turbe nane
     S’avanza Asterio, e di snudar si arroga
     Del dormente Titan le sorti arcane;

Ma dopo un lungo oroscopar con foga
     D’ipotesi erudite, in un marame
     Di argute frasi i circostanti affoga.

Ecco vien Decio che di vero ha fame:
     Curva le groppe dottorali al peso
     Di compassi, di scale e di cordame;

E del gigante il pettignone asceso,
     Vi si aggrappa anelante, e al popol grida:
     «Da questa parte ho il tutto appien compreso!

Dal sanguigno di Marte orbe omicida
     Questo ne piovve; e le nostre aure grosse
     L’han qui depresso in una calma infida;

Questi è uno di quei che l’ampie fosse
     Solcano in marziale ordine, e segno
     Ne fan di là con faci enormi e rosse.

Come non so, ma certo ei da quel regno
     Portatore ne vien d’empie novelle
     E istigator di qualche fatto indegno.

Guai se si desta! Il gener nostro imbelle
     Titaneggiar vedremmo, e all’are, a’ troni,
     Ai tre regni di Dio farsi ribelle.

Cosa audace dirò, ma quando a’ buoni
     Un ardito pensiero util ríesca,
     Vile sei tu, se innanzi a lor nol poni.

Pria che dal sonno tutelare egli esca,
     Sia tràtto al mar con argani e con ruote,
     E di sua mole il marin fondo accresca.

Ben le forze dell’uomo a noi son note:
     Ad esse, unite in un voler, non ponno
     Gl’istmi star chiusi e le montagne immote!»


Ode l’ardua proposta il popol cionno,
     E smuovere il Titano agevol tiene
     E giù trarlo nel mar pria che dal sonno:

D’ogni parte animoso ivi conviene,
     Si accalca intorno al vasto corpo, e in moto
     Argani mette e grue, suste e catene;

Ma dubitando che potrebbe a vuoto
     L’opera andar, se la gran mole viva
     Sorgesse a galla e si salvasse a nuoto,

Pensa, cosa più certa e sbrigativa,
     Darla in pasto alle fiamme, o con saette
     Forarla sì che sia di vita priva.

Quanti giorni in tal dubbio il volgo stette,
     Pergamena non è che appunto il dica
     Di quante mai n’ho compulsate e lette;

Ma so che mentre a quella rea fatica
     Dava altri mano, altri ristava in forse,
     L’inclita Lea, d’ogni bell’opra amica,

Biciclettando in tra la folla accorse,
     E, stretto all’ànche il gonnellin cortese,
     Ch’era sdrucito (e il popol se n’accorse)

Con aria di Giuditta un coltel prese,
     V’aggiustò il pugno a ben altr’arme usato,
     E svelta al mezzo del Gigante ascese.

Dal pube al ventre andò fino al costato;
     E poi che muta, con un ghigno amaro,
     Fra l’una e l’altra costa ebbe tastato,

Vibrò due volte il rilucente acciaro,
     Che, qual fosse di vetro, ivi si franse,
     Sì che le schegge al sen di lei tornaro.

Allibbì, s’adirò, di rabbia pianse;
     Ma quando vide al mostro erger la testa,
     Qual preso topo una calda acqua espanse;

Pure a balzare ed a fuggir fu lesta,
     Mentre di qua, di là, strillando a gara,
     Sperdesi in furia la turba molesta.

Decio tremò, si ottenebrò la chiara
     Mente d’Asterio; e come avesser l’ali,
     Tanto fuggir, che ne la fuga amara

L’un la tuba perdè, l’altro gli occhiali.


II.


Sollevò il capo il buon gigante; e viste
     Quelle torme fuggir trepide al piano,
     Sorridendo si fè pallido e triste.

O misero, pensava, armento umano
     Sempre al mal pronto ed al ben far restío,
     La tua redenzion fu dunque un vano