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Su la branda mi assisi; e dal maligno
Sportel, che spia la mia segreta, un bieco
Lume irruppe a ferir le mie pupille.
Voci sommesse ed interrotte udii:
«Egli era infermo da più giorni; avea
Ieri scritto alla madre; ed oggi s’era
Con una scheggia acuminata ucciso.»
Qual fosse il nome suo, quale il delitto,
Non so, nè il cerco. Un solo istante il vidi;
Solo una volta la sua voce intesi;
E pietà n’ebbi. Il signorile aspetto,
Il mite suono della sua parola
Tornava spesso alla memoria mia
Ne le tetre ore, ne le notti insonni:
Se veduto sovente anco l’avessi,
Forse l’avrei come un figliuolo amato.
Nato forse ad amare, abbeverato
D’odio e di sprezzo, egli si franse. Il sordo
Tonfo del corpo suo, dentro una rozza
Cassa gittato da straniere mani,
Ho sentito; pe’ tetri anditi i colpi
Riecheggiare del martel sinistro
Ho sentito, e ne fremo. Ahi, mentre quella
Misera bara, come sozza cosa.
Trafugata è per l’ombre algide e quasi
Gittata in pasto all’infinito oblio,
Ahi, nessuna vivente anima pensa,
Che dentro a quelle quattro assi inchiodato
Hanno un cor vivo, d’una madre il core!


IV.


     O lusinghiera illusíon di cielo,
Gran tempo è già che dal mio core in bando
Cacciata io t’ho come una sposa infida:
Nè per vezzi che sfoggi, arti che adopri.
All’amorosa comunanza io torno.
Ben io mi so, che in variopinti veli
Fra terra e cielo ondeggi, e le deserte
Piagge vestendo del tuo roseo lume,
Incoroni di fiori anche la morte.
Trepida per le torve ombre si leva
Al tuo passaggio ogni anima cui preme
Troppo il fardello della vita, e un’ora
Di tregua almen, se non di pace, impetra.
Tu di sogni vivaci e di ridenti
Fantasme il cor de’ giovanetti inondi;
Tu dell’ignee chimere il popol desti,
Perchè cibate di sublimi inganni
Sorgan le menti de’ mortali, e in vano
Fluttuar viva e si propaghi il mondo.

     Nel tuo fáscino attorto anch’io più tempo
Vissi, intènto così ne’ tuoi miraggi,
Che me stesso oblíato, e le severe
Cime smarrite, ove tra ghiacci e fiamme
Regna, sol nume a’ generosi, il Vero,
Bamboleggiai dietro al tuo vol. Ma poi
Che col niveo martello al petto mio
Picchiò più volte la fatal gorgóne
Del disinganno, e del tuo vitreo nappo
Vidi, nell’ora dello strazio, il fondo,
Liberai dal tuo spettro il regno austero
Dell’intelletto mio, nè, di te privo,
Deserto io vissi ed infelice; arrise
Provvidente il dovere al mio cammino;
E dal casto tuo lume irradiato
Esultò pronto ad opre audaci il core.

     Pur, se penso, o mia dolce Ada, che quando
Sigillati saran da la tua mano
Questi miei dolorosi occhi (deh, questo

Conforto estremo non m’invidj il cielo!),
Più non vedrò le tue forme leggiadre,
Più non udrò, per quanto il ciel si giri,
Per quanto il moto si lontani e spanda,
La tua voce soave; e non più mai
S’incontreran le nostre anime, i nostri
Atomi per l’immenso aer, più mai....
Atterrito il ciel guardo, e immensamente
Tristo mi sembra e sconsolato il Vero.


V.


     Quando il pensier da queste ferree chiostre
Libero erompe, e corre a volo il mondo,
A questo covo ignoto al sole, al cibo.
Misero, al fragore orrido de’ ferri,
Fatto quasi insensibile ed inerte,
Adusando si viene il corpo mio.
Ma se di voli stanco, e della pigra
Età sdegnoso e della scarsa fede,
Ond’io qui gemo, l’anima ritorna;
E queste bianche, solitarie mura
E il raso capo e i goffi abiti osservo,
Fuor di me con selvaggio impeto allora
Alla grata mi aggrappo, i ferri scuoto
Rabbiosamente, e non parole e voci
Ma ruggiti e bramiti al cielo avvento.
A tal dunque son io? Deh, tutti in questo
Capo i suoi mali addensi irato il mondo;
Tutti vibri i suoi dardi al petto mio
L’ira che usurpa alla giustizia il loco;
Ma che di me la padronanza io perda.
O Natura, non sia! De la tua luce
Suggella, o madre, agli occhi miei le fonti,
Ma tal governo al mio pensier concedi,
Che alle sventure immeritate incontro,
Conscio di me, serenamente io regga
Col capo eretto e col perdóno in core!


VI.


     Un vago accordo, un amoroso canto
Mi reca a notte il venticel d’aprile,
Mentre supino su la dura branda
Con gli occhi immersi nel mistero io veglio.
Vive ancora la gioia? Ancor di fiori
S’incorona la vita; e la divina
Frenesia dell’amor l’anime invade?
E questa terra, in cui tutto ognor muta,
quella terra ch’io conobbi, quella
Terra in cui vissi e ríamato amai?
Ecco, rivivon ne la mente ad uno
Ad uno i sogni ch’io sognai nel mondo,
Amor, Giustizia, Libertà! Vivete,
Sogni divini, su la terra, e tutte
Consolate le meste anime! Il giorno
Della vostra vittoria, ancor lontano,
Verrà, ne ho fede. Io nol vedrò quel giorno:
Un’ombra, un sogno di me stesso io sono;
E tale, o figlia, alle mie case or vengo
Dell’amorosa melodia su l’ale;
Ed a te m’appresento, a te che ignara
Di dolci amori e di convegni lieti,
A’ cari studj attendi, e al davanzale
Del verone appoggiata, il mesto sguardo
Volgi a le stelle, ed a tuo padre il core.
Mi riconosci? Con aperte braccia
Ecco, a me corri; l’adorato capo
Offri, anelando e sorridendo, a’ miei
Baci; e ti sgorga facile dagli occhi
Il dolce pianto ch’io versar non posso.