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II.


     Che una destra a lei cara, orrida altrui,
S’ingegnasse allentar gl’incliti nodi,
Che il suo stemma stringeano alla fortuna;
Che dell’alcova marital fra’ veli
S’insinuasse un qualche genio infido,
Momo il dicea, lo susurrava il mondo.
Ma di quel capo e di quel cor bizzarro,
Fuor che la flessuosa Egle, chi mai
Penetrò l’ombre e decifrò gli enimmi?
A lei sola, augurale astro, di quella
Trionfante beltà spiar fu dato
Le lattee vie, gli ombrosi incantamenti;
Sitibonda falena, ella potea
Delibar le odoranze acri e il licore
Inebbríante di quel fior notturno;
Ella, con mano ingenaamente audace,
Di quel magico libro ad uno ad uno
Schiudere i fogli dall’amor non lètti.
E se d’un improvviso estro talora
Senti nel cor l’ignito strale, e schiva
D’altri sollazzi, in serpentine spire
Ai fianchi dell’amica ebbra si attorse,
Tali baci trovò, che in un soave
Oblío le due compagne anime assorte
Beatamente si smarríano in cielo.


III.


     Ma tal venne a la fine un piccioletto
Despota, ch’usurpò d’Egle l’impero:
Un batuffol di rose e di giacinti
Mezzo sommerso in una lattea spuma
Di ricami, di nastri e di merletti:
Un ricciutello re, ch’ebbe per soglio
Fra cortine di raso un’aurea culla,
Ed armi irresistibili i vagiti.
Sul cerulo guanciale ove la nova
Creatura con labbro semiaperto
Ricercava sognando il sen materno,
L’altera castellana a poco a poco
Deponea lieta ogni pensier del mondo;
Vigea del bizzosetto idolo intorno
L’anima sua come aranceto in fiore;
Erano i suoi pensieri api al mattino
Sciamanti argute a un ramuscel fiorito;
Gli affetti suoi, tenaci edere; in ogni
Adito del cor suo cantavan fonti
D’acque lustrali, e pigolavan nidi.
Vedea meravigliando il grigio sposo
Tanti da un bacio suo fluir tesori
Di domestica pace, e d’insueta
Giocondità si rivestíano i solchi
Del volto suo, come arenoso greto
Che al sorriso d’april metta alcun fiore.


IV.


     Qual gelosa ad un tratto ala di morte
Tanta luce eclissò! Presagi strani
Ebbe in sogno la madre, e con un grido
Sussultando, anelando, in sul tremante
Cubito eretta, con intente orecchie,
Con sbarrati occhi stette. Una rosata
Luce piovea dal pendulo alabastro
Su la tacita culla, e di riflessi
Dolci animava le cerulee tende;
Tutto intorno dormía, se non che in ogni
Vena, con rombo inegual martellando.
Paurose mettea voci il suo core.
Ed ecco, in un fruscio lene, i damaschi
De la portiera lentamente aprirsi,

E una pallida mano ischeletrita,
Un candido fantasma a la dormente
Culla appressarsi, e nera a la parete
Gittando la crescente ombra, chinarsi,
E posar su la fronte ricciutella,
Irrorata dal sonno, il cereo dito.
Gridò la madre esterrefatta, e nuda
Precipitando s’avventò. Sparita
Era la tetra immagine; ma in cieco
Malore attorto il picciol corpo ardea.

     Languía la rosea creatura; e come
In tenebroso baratro rapita
Dell’egra madre s’avvolgea la mente.
Fuggir vedea tra le socchiuse imposte,
Nei cocenti meriggi, a la parete
Le vaghe ombre dei carri e dei passanti;
Perdersi udiva in un romor confuso
Le voci, i suoni della via frequente;
E fuggíano da lei come in un sogno
E si perdeano in un vuoto infinito,
Neri augelli di morte, i suoi pensieri.


V.


     Quando con trasognati occhi mirò
Vuota la casa, derelitto il nido,
Al freddo capezzale ella si assise
Pallida, austera a vigilar la morte.
E in leggieri, gementi ondeggiamenti
Agitando la tenue navicella,
Che già lieta portava il suo tesoro,
In vaghe nenie, in teneri bisbigli
Cullava dell’errante anima i sogni.

«O piccioletto re, che da le case
     Auree del sole eri venuto a me,
Il trono dell’amore orbo rimase,
     Deserto il regno che il mio cor ti diè.

Per la notte infinita, in fragil barca,
     Inesperto nocchier, dove vai tu?
Tu che del sen materno eri monarca,
     Sopra il mio sen non poserai mai più!

Vedi? è torbido il mar; gelido il verno
     Mugolando per l’ombre orride va;
Torna, figlio adorato, al sen materno,
     Loco più fido il mondo e il ciel non ha.

Volgi, amor mio, la solitaria prua;
     Teco per l’infinita ombra verrò;
Io che un regno ti tiedi, io che son tua,
     Ove dormire, ove morir non ho.»


VI.


     E un giorno egli la udì. Esile e grande,
Non qual visto l’avea nell’ultim’ora
Pargolo semplicetto, egli le apparve:
Bello d’un blando lume era il suo volto,
Ma pensose e pietose avea le ciglia,
Come se tutte, in sì brevi anni, avesse
Dell’umano dolor le voci udite.
Le si fece da presso, e dolcemente
Carezzandole il petto: O paradiso
De’ miei sonni infantili, ei le dicea,
Da lontane regioni ecco a te riedo,
Poi che la voce ho del tuo pianto udita.

     Estatica, anelante ella mirava,
Nè voce avea: tremavano le sue
Aride labbra, come tenui fiori
A la gelida brezza irrigiditi;
Da una rorida nuvola velati