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X.


     M’arrampicai su l’alpe eccelsa: i nidi
Dell’aquila esplorai; sentii da presso
Ruinar la valanga, orride intorno
Scrosciar l’acque e scricchiar gl’irti ghiacciaj,
E giù nel fondo, qual purpureo mare,
Fluttuar cupa e brontolar la selva.
Qual fáscino improvviso attorse e smunse
Il corpo mio? Già m’era a vista il picco
Ultimo, e il cor mi presagía secura
La vittoria: già il Sol primo lambía
Il mio crin, le mie ciglia, allor che ansante
Ristetti: tremolavan le ginocchia
Come spiche percòsse; un fragoroso
Turbine imperversò nel mio cervello,
E inerte all’orlo de l’abisso giacqui.
Strisciavan su la mia madida fronte
Sinistre ale d’augelli, ombre spettrali
Di nebbia; mormoravano parole
Misterioso a’ sanguinanti orecchi,
Sfioravan la mia gota algida i bianchi
Genj de la montagna. Io su l’abisso
Pendea supino; e sopra i trasognati
Occhi, su la stupita anima, quasi
Immane pietra sepolcral, sentía,
Incombere sentía l’azzurro immenso.


XI.


     Virtù, salute, amor, sapere, ingegno
Beni non sono al mio buon Genio ignoti;
E, s’odo il ver, di così rare doti
Non fui (tel soffri, invida ciurma) indegno.

     Pur, se dintorno a me tanti a me noti
Dolori affiso, il viver mio disdegno:
Ahi, d’un solo dolor non valser voti,
Non versi ed armi a debellare il regno!

     Ben ancor delle oneste opere echeggia
La fama; io taccio; e in un indefinito
Fastidio il mio pensier triste si addorme.

     E su l’anima mia (vasto, uniforme
Lago ne l’invernale ombra sopito)
La gran giornata de la Morte albeggia.


XII.


     Sedevo a cena sotto i cedri in fiore.
Splendea sereno il plenilunio; intorno
S’addormivano i campi; e la pensosa
Tranquillità dell’ora, il casto lume
Del cielo, il canto delle assidue rane
Ondeggiante a la placida campagna
Vaporosa al respir novo d’aprile,
Persuadeano al mio spirito un mesto
Desiderio di pace alta, infinita.
Intènto, più che al cibo, era il mio sguardo
A un sorriso di mar, che scintillante
Fra una siepe s’apría d’alberi foschi;
E già per quella via d’oro e d’azzurro
Veleggiava il pensier, quando uno strano,
E orrendo potrei dire, ospite venne:
Una forma indistinta, un mucchio vivo
Di cenci e di lordura, ove tra un fitto
Orror di peli luccicavan due
Occhi o punte d’acciaro insanguinate,
E più sotto, una chiostra aspra di bianchi
Denti di belva. E come belva in antro,
Ringhiando entrò; di fronte a me si assise,
E allungando la branca ischeletrita,
M’indicò sghignazzante il cibo e il vino.

Fra ribrezzo e pietà tutto io gli porsi;
Egli, il tutto in due parti eque diviso,
L’una in corpo cacciò, l’altra a me spinse.
Indi satollo e barcollante sorse;
Mi batto su la spalla, e «Addio, fratello».
Con un beffardo mugolío mi disse;
E tale un guardo mi lanciò, che in seno
Balzar sentii, qual battuta onda, il sangue.
Ed io, non so perchè, sin da quell’ora
Colpevole mi sento; e quel suo sguardo
In cor mi sta, come un pugnal, confitto.


XIII.


     Naufrago, forse. Oscuro e violento
S’attorce il turbo a la raminga barca
Ma il flutto, che qual serpe il dorso inarca,
Non udrà fra’ suoi gorghi un mio lamento.

     L’abisso, onde il funesto alito sento,
La prora inghiottirà, ch’agile or varca;
Ma i peregrini semi, ond’essa è carca,
Si spargeran liberi e forti al vento.

     Germoglieran tenaci in meno avaro
Lido i bei semi; e dalle arboree chiome
Ombre e fiori daranno a un pio soggiorno.

     E forse alcun, che di quei rami al caro
Rezzo si assida, fremere dintorno
Udrà con generosa ansia il mio nome.


XIV.


     Dopo tanti anni la rividi, oh quanto
Diversa! Quella sua fulva, selvaggia
Chioma, che stretto avea con serpentine
Spire il mio cor, fatta era grigia, e come
Nebbia su’ greppi d’una brulla rupe,
Le sue tempie lambiva in preda al vento.
Quel sopracciglio suo, che folto e bruno,
Al furíar d’un improvviso sdegno,
Uníasi all’altro, e fra l’eburnea fronte
E il fiammeggiar de’ grandi occhi segnava
Una torbida striscia, onde più bello
Nel suo fiero pallor faceasi il volto,
Quel sopracciglio ora spianato, e quasi
Stanco di raggrottarsi agl’improvvisi
Moti de la vorace anima, inerte
Stendeasi come lento arco che tutti
Lanciò i suoi dardi, e in polveroso oblio
A una vecchia parete immobil pende.
E le labbra, oh le labbra, a cui nell’alto
Abbandono di me tutto a ber diedi
I più puro licor de la mia vita;
Quelle labbra sì belle anco nel pianto,
Che nello sdegno, nel piacer, nell’ira
Avean tremiti arcani, e da cui tanta
Spirava aura di canti e di malíe:
Incantatrici labbra, ove ahi sì spesso
La bugia turpe o il meditato oltraggio
Toni usurpava di gentil fierezza,
Vezzi assumea di verginal candore,
Nappo vuoto or parean, che in geniali
Banchetti prodigato avea l’ebrezza
Al pensiero dell’uomo, e poi caduto
Di mano in man nell’umile bacheca
D’un rigattiere ebreo, la liberale
Bizzarria d’un Inglese indarno aspetta.
Rassegnata al dolore, alla vecchiezza,
Alla morte mi parve. Era un tramonto
D’autunno, e pe’ víali ampj del bosco
Odorati di musco e di languenti
Foglie (oh dolce stagione, a cui dà tanto