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IV.


Odj sfidare ed affrontar perigli
Fu giovanil mia voluttà; mirai
Cento forme di morte e di dolore
In ospizj pietosi e in campi orrendi;
E la virtù ch’ebbi in domar me stesso
E i miei mali e gli altrui finger ne’ carmi,
Caro perfino il mio dolor mi rese.
Ma se miro incurvir di giorno in giorno
Questa mia vecchia venerata, e bianca
Bianca più sempre e quasi aerea farsi,
La mia virtù, l’arte diletta oblío:
Una mano d’acciajo il cor mi serra,
E le lacrime, insolite al mio ciglio,
Tutte ne spreme ed a salir le sforza.
Giovane e forte. io la rammento: fiera
De’ suoi governi, con lo sposo e i figli
Snodar la lingua a vanti ingenui, e d’alta
Lode onorar la donna onesta e saggia,
Che tutta intèsa al famigliar decoro
Spregia i fasti del mondo, e le furtive
Fanti vegliando, inesorata infligge
Alle infide e proterve util castigo.
Tacita e tarda ora si trae per l’erme
Stanze, membrando i cari estinti; o assisa
Ne la seggiola antica, ove mio padre
Agonizzò, daccanto al picciol letto,
Mormora preci; e dai nodosi diti,
Che alla calza per uso anco affatica,
Sfuggir lasciasi i ferri industri, e il lento
Capo inchinando placida sonnecchia.
A contemplarla io mi soffermo; e ogni altro
Pensier vanisce in questo sol: quand’ella
Più non sarà, rotti saran per sempre
Gli occulti fili, onde alle Madri eterne
Dell’universo il viver mio si lega!


V.


     Se, come tu di spine armi i tuoi pori,
Euforbio immite, i miei pensieri armai,
E come tu di sanguinosi fiori,
Di fieri versi io l’aspra vita ornai,

     Non mai maligni e velenosi umori,
Perfida pianta, come te stillai;
Degl’innocenti e dolorosi cori
Frodi non tesi alla virtù giammai.

     Ben talor su le altrui torpide piaghe
Acri, amare versai cocenti stille
Che a la putrida età sembrâr veleno;

     Ma se del male altrui furon mai vaghe,
Amore il sa che l’esprimea dal seno,
E sel sauno del par le mie pupille.


VI.


Più che dar non mi possa io non ti chiedo,
O Scíenza dell’uom. So che al tuo volo
Son le foci e le fonti alte precluse
Del mirabile fiume; e nell’austero
Crepuscolo dei tuoi regni ristretto,
Piego docile alunno al tuo bel seno
La fronte, e quest’ingordi occhi vorrei
Sigillar ne la pace. Ahi, ma l’infermo
Spirito geme irrequíeto; e ancora
Che a vane inchieste il labbro mio si chiuda.
Interroga la mente; e acuto, insonne
L’occhio mio la nemica ombra ferisce.


VII.


     O vecchia vela, che degli euri infidi
Sai la chiara lusinga e il fosco oltraggio,
E all’incertezze d’un lontan viaggio
Audace ancora il sen logoro affidi,

     Troppo in te forse e del nocchier tuo saggio
Nella fortuna e nel valor confidi,
Se contr’al ciel maligno e al mar selvaggio
Speri giungere illesa agli ardui lidi.

     Ma sia che il nembo ti flagelli, o sia
Ch’ozíosa tu penda all’aria morta,
Sempre al ciel t’aprirai nitida e franca;

     E se cadrai da’ neri gorghi assorta,
Cadrai, come la vecchia anima mia,
Lacera sì, ma dispiegata e bianca.


VIII.


     Empia pur del mio nome i suoi contesi
Oricalchi la Fama, e con perenne
Clangore a’ lidi più remoti il mandi;
Finga in rigido marmo e in bronzo austero
Arte ravvivatrice i miei sembianti,
Non si spiana però de la severa
Fronte il triplice solco, onde il Pensiero,
Acre dio, la segnò sin da’ primi anni.
Non a te, non a te, che tanti eccelsi
Animi, o Gloria, al tuo bel giogo inchini,
lo drizzai più de le mie brame il dardo,
Non a te l’ali del presago ingegno,
Quando l’Idea sublime, a cui sol vivo,
Primamente al mio casto animo arrise.
Alte cose tentai; sperai che squilla
Fosse a’ dormenti il detto mio; che, sgombro
Di numi il cielo e d’oppressori il mondo,
Sorridesse la Pace a le benigne
Confederate opere umane. Audaci
Speranze, il so; ma qual poter maligno
Vi dilunga da noi, sperauze alate?
Ahi, non una finor de le felici
Immagini invocate a noi discese;
Non una ancor de le sue rosee bende
Fasciò le piaghe de’ mortali, ancora
Siccome labbra sitibonde aperte!
Ond’io torbido fremo; e se fra tanto
Dolore umano al verso mio dà lode
La discreta amistà; se il capo emunto
Levan da la servile opra i dolenti
Acclamando al mio dir, voce di scherno
Mi sembra il plauso dei mortali; e un vampo
D’ira il mio volto e di vergogna accende


IX.


     Quella cerea beltà, che spezzò tante
Fibre d’acciar, sognai ch’era ancor viva,
E su la fossa del suo primo amante
Fiori intrecciava e il labbro al canto apriva.

     «O dolce amor dal pallido sembiante,
Come presto giungevi a questa riva!
Come volenteroso a le mie piante
Il cor gittasti che la gloria ambiva!

     Ma sol non giaci: in questo rezzo blando
Dormon con te molti a me cari; ed io
Spargo su tutti ognor lacrime e fiori;

     E a voi tutti, o canuti e biondi amori,
Apro, soavi nenie mormorando,
Cimitero di marmo, il petto mio».