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Scaglie protette, in prato, in bosco, in onda
Traggan la vita ignara, alle sue case
Non isperi benigna Iside mai,
Non a sè, non a’ suoi, però che in cura
Sono a lei tutte le viventi cose,
Nè patisce che impune un uom mortale
Lutti rechi ed esizio a cui gioconde
Nozze e libera pace ella concesse.
Lacrimabil Fenice egli dal rogo
Illacrimato sorgerà, non gli alti
Regni del sole a spaziar, ma in sozzo
Corpo di bruto ad abitar dannato,
Gli strazj patirà che il dente ingordo
Del vulgo e il crudo pueril talento
Ai bruti inermi spensierato infligge.
Parimenti colui che per abjetta
Smania di lucro o per litigi i sacri
Boschi col ferro e con la fiamma insulta,
O ameni arbusti e frondi ombrose e fiori,
Ridenti occhi dei prati, in empia guisa
Scerpa, sparge, conculca, infruttuosa
Rivivrà pianta in selva, e da villana
Mano all’acre stagion sterpata e guasta,
Nutrirà di sue membra palpitanti
Plebee fornaci e signorili alari.
Ma chi la legge della vita e i dritti
Delle specie rispetta, ordine e stato
Non solo in meglio cangerà, ma forma
Vieppiù leggiadra a più bei sensi adatta
E più pura sostanza e in più capace
Mente idee sovrumane avrà in retaggio
Finchè di sfera in sfera indi sorgendo,
Giungerà là dove ignoranza e morte
E vecchiezza e dolor son mostri ignoti.
Questo, questo sol un (così le vostre
Menti illumini appieno il detto mio!)
Col mio tutto soffrente animo in tanto
Peregrinar di cosa in cosa appresi,
E questo a’ vestri egri intelletti io reco
Ospital dono, or che tra voi mi aggiro
L’ultima volta, e sorgere all’eccelsa
Regíon la redenta alma si appresta.
Nè mattutino sogno o consueto
Carme di Proteo in sul meriggio estorto
Rivelato ebbe a me l’occulta trama
Dell’umano destin (meravigliosa
Storia e pur vera a’ vostri orecchi io fido)
Ma quel desso che tutto anima, il primo
Di tutti i numi e il solo eterno, Amore.
Di giovinetto mandríano in vista
Mi si offerse egli un dì, mentre alla riva
D’Acraganto io sedea, famoso fiume
Che a famosa città dà nome ed acque,
E a cui nato m’estima il popol folle,
Sol perchè primamente ivi in sembianza
D’uom nutrito di pane errar mi vide.
Pensieroso io figgea l’occhio ne’ biondi
Flutti, e quasi da un fáscino rapita
L’anima mia per la volubil china
Trascorrea trascorrea languidamente
Al mar che ondeggia e mormoreggia eterno,
Paga di profondarsi entro l’abisso,
Pur di rapire il vero ultimo ai ciechi
Visceri dell’Enigma. Una parola
Misteriosa bisbigliavan l’erbe
Tremule al vento in su’ corrosi greti;
Una parola si dicean tra’ rami
Gli augelletti felici, aeree cimbe
Che il cielo importuoso in lieti còri
Soleano cinguettando; i monti azzurri,
Le selve in fiore, i prati palpitanti
Al bacio della rosea Primavera
Si scambinvano all’aure una parola,
Ch’era da ognun, fuor che da me, compresa.
Pur dalle tempie mie pendea la sacra
Infola; al mio passar, quale ad un dio,
S’inchinavano popoli e monarchi,
Mentre di terra in terra alto cantando
Gloríava la Fama il saper mio,
E s’ergeano le menti de’ mortali,
Come dorici templi, ad onorarmi!
Dispettoso mi volsi, e al giovinetto
Che fatto erasi intanto a me da presso,
E di sottecchi con amabil ghigno
Mi sguardava e tacea, non senza un qualehe
Stupore m’affisai, però che fuori
D’ogni costume pastoral di tanto
Grazíoso decoro ardea negli atti
E più nell’ineffabile sorriso,
Che tutta intorno a lui d’iridi accesa
La trepid’aura radiar parea.
A me lo trassi con un cenno; sopra
L’eburno e ben tornito ómero, quasi
A un dolce nato mio, posi la destra;
E mentre il roseo collo e il ricciutello
Capo io gli andava carezzando, è vaghe
Dimande gli movea, nulla badando
A carezze, a richieste, ei con la punta
Di un suo virgulto su la bionda arena
Scrisse e guardommi sorridente: Amore.
Mai così non mutò magica verga
Del ciel l’aspetto e della terra, come
Diversa a un punto alla mia vista apparve
La sembianza non pur, ma la natura
Intima delle cose: un sentimento
Novo acquistâr l’aria, la terra e l’acque,
Come se tutto in lor fosse trasfuso
Quell’arcano potere, onde il venusto
Garzon seguato avea pur ora il nome.
Degli augelli, de’ fior, delle montagne
La voce occulta allor compresi, il verbo
Della vita fu mio; l’immensa luce
Del Sol m’entrò per le pupille in core,
Tetro baratro un tempo, or luminosa
Pagina, in cui dell’universo in chiare
Note la storia ed il destino io leggo.
Trasfigurato intanto erasi al mio
Sguardo il mirabil giovinetto, e quasi
Dilatandosi all’aere sorgea,
Finchè del capo il cielo ultimo attinto,
Tutti occupò gl’immensi spazi, e fuse
Nell’infinito suo splendore il mondo.
ANTINOO.
Appoggiò l’arco alla parete, e lento
Volse, intorno guardando all’ampia sala,
Il vendicato Laerzíade il dorso.
Tutti giaceano i Proci, e il pavimento
Lagheggiava di sangue. Atre ei le mani
E maculati i fausti cenci avea;
Ma come terso cielo entro il suo core
Splendea l’animo suo, poichè diritta
E lungamente da una dea voluta
Di quel branco lascivo era la strage.
Al cenno dell’eroe corsero i fidi
Famigli a trarre i morti corpi; venne
Euriclea con le fanti; e poi che in copia
Ebber dalle ritonde idrie versato