Pagina:Rapisardi - Poemi liriche e traduzioni, Remo Sandron, 1911.djvu/515

POEMETTI

(1885-1907)


EMPEDOCLE.


Ben che umano l’aspetto e non diverso
     Dall’umana progenie abbia il costume,
     E veramente come ogn’altro io cibi
     Della terra le frutta, e la digesta
     Dape alla gleba, che sen giova, io renda,
     Pur tra voi, piccioletti uomini, esente
     Di morte e mai non generato io vivo:
     Chè tal davvero io son, quando nè stilla
     Di genitale umore, il desíoso
     Germe nel femminil solco intridendo,
     Mi dispose al natal, nè con languenti
     Palpebre mai la fuggitiva luce
     Invocherò. Me (così muti in meglio
     Questa di colpe e di dolor nutrita
     Lacrimevole stirpe!) il sempre puro
     Etera concreò; me con benigna
     Temperie l’acqua onnifeconda emise,
     Quando fra mare e cielo erano ancora
     Confusi i dritti, e le immature glebe
     S’ammontavano pigre all’onde in seno.
     Non di pensanti allor, non d’animali
     Razze pascean la fruttuosa luce,
     Non alberi, non erbe, infin ch’io primo
     Vegetal seme in su la terra eruppi,
     In molli strati mi distesi, in alti
     Rami m’attorsi, e per immemorati
     Tramutamenti conquistando il moto,
     Come il senso da poi, fuor degli acquosi
     Baratri al Sol più temperato emersi.
     Me non conscio vibrar, me guizzar vide
     L’onda immensa da pria, me per le inferme
     Ripe reper la terra alma; a vicenda
     Correr duplice mostro il flutto e il lido,
     Snodar le spire sinuose e tendere
     Le pinne audaci ad usurpar le alture;
     Poi di salde ossa e d’aeri nervi instrutto,
     Qual nave capovolta, imprimer l’erbe
     Di quattro orme ad un tempo, e nei muscosi
     Spechi gl’impauriti echi svegliando,
     Contendere ai men forti il covo e il cibo,

Così, di forma in forma infatigato
     Peregrinando, all’uman grado ascesi,
     Non ultimo per fermo; e guida e legge
     M’era un cieco voler, che per gl’immani
     Spazj diversamente il tutto incalza;
     Voler cieco da pria, che a mano a mano
     Si disvela a sè stesso, e ne’ profondi
     Organi si raccoglie e si ripete,
     Quale in mar fortunoso occhio di stella
     Or sì or no dove si spiana il flutto.
     Indi gli antri, indi i laghi ebber le tracce
     De’ miei dolori e dell’industrie mie:
     Indi al fragore di selvagge cacce,
     Onde già primamente inorridîro

     Di vivo sangue le foreste (ed ahi,
     Sangue solo di belve esso non era!)
     Il martellar metallico successe
     Per le montagne investigate e il lampo
     Delle falci tra’ solchi al sole aperti
     E il baccar ebbro tra ’l fervido mosto,
     Dator d’oblío caro ai mortali. Un suono
     D’ingegnose fatiche e d’innocenti
     Sollazzi, indicio di men fiero stato,
     Còrse pe’ campi arati, e nel gran core
     Della Terra una gioja alta sorrise.
     Per murate castella e popolose
     Città quindi mi avvolsi, utili norme
     Persuadendo agli aspri uomini ed uso
     Di mutui dritti ed alleanze ed arti;
     È, poi ch’ebbi di tutto esperíenza,
     Tutto il mondo in me porto, e gli ordinati
     Ricordi a voi, tristi mortali, apprendo;
     Benchè saper di vane pompe ignudo
     Non sempre accètto a rozzi animi arrivi.
     Ma svelare a’ ritrosi utili veri
     Dover primo è del saggio; e chi di bieca
     Plebe, a gloria del Ver, l’ire non sfida,
     E chiusa in cor la verità si serba,
     Sordid’uomo il puoi dir, che l’oro accolto
     Veglia tremando, mentre a lui dintorno
     Affamato in tumulto il popol freme.
     Poichè, per l’aria e l’acqua e il foco e questa
     Terra, onde il grano s’alimenta, io giuro,
     Non d’occulte dottrine e d’intricati
     Filosofemi il vostro animo ha d’uopo,
     Anzi solo d’amore; e chi d’Amore
     Meglio intenda la legge e a lei s’inchini,
     Quegli è savio e beato: apriche e nude
     Splendono agli occhi suoi tutte le cose,
     Della scíenza attinge il sommo, e i letti
     D’Iside, sposo innamorato, ascende.
     Nè perchè l’Odio impetuoso irrompa
     In tra le corde dell’eterea cetra,
     E ne renda, ahi sì spesso, il suon discorde,
     Filo alcuno ei ne frange. Oh sciagurato
     Chi la fugace dissonanza accoglie
     Nella torbida mente, e dell’altrui
     Vita, qual ch’essa sia, la legge invade!
     L’armonia turba un tratto ed orgoglioso
     Gavazza; ma su lei Nemesi piomba,
     E sotto il piede adamantino il preme.
     Nè chi dell’uom soltanto usurpa il dritto,
     Ovvia ha l’ira del ciel; ma chi per bieca
     Fede, a onor d’insensati idoli, bagna
     Di ferin sangue i vaporati altari,
     È chi non da bisogno orrido astretto,
     Ma per fiero costume insegue a morto
     Le innocue razze, o sia che di velluto
     Pelli o d’agili piume o di squammose