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Peccati confessati 9

mia Fausta era in una specie di luna di miele, prendeva i baci appiccicosi del rullo inchiostrato, si compiaceva dei replicati amplessi del torchio, ed era sul punto di uscire all’onore del mondo. Il mio stampatore era anche librajo; e un giorno, aspettando le ultime bozze, mi cadde sotto gli occhi una traduzione dell’Ero e Leandro. La presi, la lessi, la portai a casa, la rilessi non so quante volte; e tanta fu la vergogna di quell’aborto che stavo per mandare al pubblico, che non volli per parecchi giorni andare in tipografia. Quando rividi gli stamponi, aggiustai, rifeci, confettai, spolverai d’Ero e Leandro le ultime pagine, e il pasticcio diventò più mostruoso di prima. Ne mandai pochi esemplari ai conoscenti, gli altri diedi a’ libraj, non per isperanza che avessi di venderli, ma per levarmeli di casa e dagli occhi. Da Museo ero intanto corso a Teocrito, ad Eschilo, ad Anacreonte, ad Omero; mi si schiuse un nuovo mondo, ed ebbi non più vergogna, ma dispetto, ma rabbia contro di me stesso e di tutti coloro che mi ringraziavano e mi lodavano del regalo, invece di gettarmi in faccia quell’insulso libriciattolo e di rimandarmi a scuola a suon di scappellotti. Levai di mano a’ libraj tutte le copie che avevo loro mandato, e ne feci un bel falò in mezzo al mio studio, dopo d’aver posto a’ quattro angoli della stanza i quattro poeti di gesso per assistere alla cerimonia solenne.

Stetti un par d’anni senza più farmi vivo, lottando con mio padre che voleva costringermi a prender la bacca dottorale (che io non presi mai, benchè avessi fatto il mio bravo corso di giurisprudenza e pa-