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8 | Peccati confessati |
licaja, ch’ella fosse men bella o almen più forte, non senza spargere una lagrima grossa quanto un chicco d’uva sulla
Italia mia, benché il parlar sia indarno.
Indarno un fico secco: io non mi credetti quell’io che avevo sfidato le ire terribili del R. Revisore, prima di aver fulminato più serque di decasillabi contro i tiranni, una vera falange di romanze politiche e d’inni patriottici contro il giallo ed il nero, colori esecrandi a ogn’italo cor.
Figurarsi la tremarella del mio povero padre, una tremarella che durò fino al 60! Dalla romanza e dall’inno passai alla cantica, saltai alla novella, m’adagiai nel poemetto; scrissi un Dione, e, bisogna pur che lo confessi, una Fausta e Crispo, che vide poco dopo la luce e che fu e sarà, modestia da parte, il più sciocco, se non il più grosso peccato della mia vita.
Quel volumettino in sedicesimo, stampato in Catania, con caratteri logori, in cartaccia stopposa, con copertina turchiniccia, mi sta ancora dopo tanti anni dinanzi agli occhi, mi balla sul tavolino nell’ore di sconforto, mi pesa sullo stomaco come una macina. A quel tempo io ero uscito di scuola, non avevo più maestri, non amici, nessuno che mi consigliasse, mi correggesse; m’ero fatto un mondo piccino piccino a mia propria imagine e sodisfazione, e me lo portavo addosso come la chiocciola il guscio: ogni lumacatura che lasciavo dietro di me, mi pareva la via lattea, nè più nè meno. I poeti greci non li conoscevo neppur di nome; i latini appena di vista; e intanto la