Pagina:Rapisardi - Opere, I.djvu/13


Peccati confessati 3

tasse, a dir poco, un Metastasio. Con me era davvero un affar serio: la sua prosodia, prima non c’era cristi che m’entrasse nel capo; poi, quando finalmente mi c’entrò, mi giovava, per essere modesto, assai poco: sapevo che gli endecasillabi han da essere di undici sillabe di netto e senza tara; han da avere gli accenti così e così; ma al tirar dei conti, come che, valga il vero, mi aiutassi bravamente con le mani e co’ piedi, e più forse con questi che con quelle, si trovava quasi sempre un vuoto o un avanzo di qualche sillaba, per non parlar degli accenti che io mettevo come diavolini sui miei lattovari poetici. Il poveretto ci si arrabbiava di cuore, e io ne restavo sinceramente mortificato; ma che colpa ci avevo io, se non trovavo ancora nel mio cervello e nel mio cuore nessuna idea, nessun sentimento che si volesse adagiar in quelli schemi, che a me parevano tante camicie di forza? Ma sì, bisognava dirlo a lui! Era il caso di vedersi tirar sulla testa un libro, il calamajo, la sputacchiera, la chicchera col caffè o qualunque altro projettile gli capitasse fra le mani: tanto era bilioso e manesco.

Gli argomenti che mi dava erano d’un’ampiezza e di una novità edificanti: l’invidia, p. e. l’amore, la famiglia del giocatore, il condannato a morte, e altri di simil conio. Talvolta ci entravano anche i santi; non già ch’ei li prendesse sul serio, ma per farmi esercitare nel genere sacro; ed io, a dir la verità, non mi ci trovavo troppo a disagio; perchè allora, bisogna che lo dica, nel mio cuoricino di tredici anni c’era il fungo religioso: andavo spesso in chiesa, servivo la messa, suonavo le campane e belavo in coro il Pange