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di trovargli un buon generale per le artiglierie: trista condizione de’ piccoli stati l’andar mendicando soccorsi qua e colà, e l’incontrar sovente o noncuranza o rifiuti. Non erano vani però i timori per la continuazione della guerra: scriveva lo stesso Raimondo al principe Borso d’Este il 4 di gennaio del 1644, esser prudente il tenere in ordine le truppe, quantunque in Italia tutti si mostrassero inclinati alla pace; la quale non ebbe luogo infatti se non qualche tempo dopo, e non senza nuovo spargimento di sangue, perocché alcune scaramuccie venivano accadendo tuttavia fra le truppe che si stavano a fronte.
Qualche pericolo aveva già incorso Guiglia, com’ebbe a scrivere il marchese Francesco Montecuccoli, e da Spilamberto tentò poscia il Lavalette di sorprendere i pontificii facendo tragittare il Panaro a seicento fanti, mentre a guado lo passavano ottocento cavalli suoi: se non che il luccicar delle torcie con che a quella gente, essendo notte, s’indicava la via, pose il nemico sull’avviso; ond’è che il nuovo cardinal Valencé spingendo i suoi soldati contro il Lavalette, l’astringesse a ritirarsi. Meglio tornò ai veneti l’assalto che dettero di nuovo a Lagoscuro, essendo colà rimasti sconfitti i pontificii, ed a stento salvandosi con una fuga, che fece il paio con quella di Nonantola, il cardinale Antonio Barberini, poco innanzi uscito da Ferrara. L’infermità sopravvenuta a papa Urbano sulla fine del gennaio del 1644, accresceva le speranze della pace che si stava trattando: ordinava pertanto il duca al Montecuccoli, che senza troncare le pratiche iniziate per leve ed altro, le tenesse in sospeso. E già il Montecuccoli stesso, come si ha da una lettera sua del 30 di gennaio, era stato in procinto di partire per Modena , allorché la morte della contessa sua cugina, e gli affari ai quali, come diremo, dovette attendere, lo astrinsero a deporre il pensiero di lasciar Vienna. Ma di là egli seguiva quanto accadeva in Italia, lo svolgersi dei trattati diplomatici; durante