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miniana delle opere del conte, sorse il dotto abate Daniele Francesconi, e con belle congetture, che si ebbero fin d’allora per dimostrazioni certissime, additò quella lettera essere veramente dell’insigne pittore Raffaello d’Urbino (1).

Il volume nel quale il dotto uomo comprese il testo di essa lettera, il discorso composto per rivendicarla all’urbinate, e che arricchì di note copiosissime da illustrare sì l’uno e sì l’altro, è fatto oggi assai raro. Nè quella preziosa lettera fu poi riprodotta, se non solo in edizioni di opere di grande mole; nè si fece uso di altri argomenti, che valessero a dichiararla, salvo quelli dal Francesconi additati (2). Non era però decorso un anno dopo la pubblicazione dello scritto del dotto bibliotecario di Padova, e il ch. Iacopo Morelli faceva conoscere un documento del più grande rilievo intorno agli studi di Raffaello sulle romane antichità. È questo il sunto di una lettera di Marco Antonio Michiel di ser Vettor, nella quale si trova narrata tutta la cura che Raffaele spendeva nei monumenti di Roma, l’espettazione somma