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Capitolo IV.

CIÒ CHE S’INTENDE DIMOSTRARE.


Queste tre parti della leggenda, chi ben guardi il testo di essa, hanno tra sè diversità d’intenti, differenza sensibile di stile e di colorito; e qui e qua un concatenamento di concetti logicamente sconnesso, e tale un concatenamento di periodi che svela la rappezzatura. Lo stile della seconda parte è meno inculto e men ruvido della prima; mostra un’abbondanza, anzi una certa ambizione di ornamenti che la prima non ha; e una certa, che si tradisce, appiccicatura di frasi e di notizie che non fanno direttamente allo scopo della storia del santo, quale è veramente il subbietto della prima parte.

La quale corre di un getto in una forma di stile, senza dubbio stecchito e di costrutti sintassici stentati; ma ha però una speciale sua impronta che manca alla seconda parte; e questa è l’abbondanza della forma dialogistica, per la quale o lo scrittore aveva una singolare propensione, ovvero imbevuto che egli era delle fonti agiografiche dello stesso genere, ne ritrasse, come qualità propria, anche il movimento drammatico dello stile. Egli più che non narri fa parlare i personaggi del suo dramma; e davvero con tanta verbosità, che lo stesso magistrato romano della leggenda ne fa rimprovero al protagonista di essa. Quando la situazione non si presti al dialogo, sopravviene l’epistola; e di questa il narratore dà titolo, indirizzo, contenuto preciso; poi segue la risposta con l’incorniciatura stessa. Il carattere dialogistico manca, come è detto, alla seconda parte; e manca anche là dove il dialogo sarebbe stato in sede propria e naturale, come quando, a mo’ di esempio, entra in colloquio il vescovo che chiede e il prete custode che nega le reliquie del santo.

L’intento della prima parte è unico e chiaro; è quello di narrare la vita evangelica e il martirio dell’apostolo grumentino. L’intento della seconda parte è duplice: dovrebbe essere unico