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che si stendeva sotto il villaggio silenzioso, e i profumi acri delle montagne di calce irrorate dall’umidità della notte autunnale. — Un usignuolo cantava fra i roseti gialli del nostro giardino: la sua musica fine e triste destava in me, magnetizzato dall’aspetto pallido del paesaggio, inebbriato dagli umidi profumi del vento, e i nervi posti in sussulto dal pianto di Gella, la sensazione mista d’angoscia e voluttà provata una volta, nella città dove studiavo, nel sentire una suonata pensosa e melanconica di Mozart, eseguita al piano da una signorina tisica e moribonda...

Rimasi così a lungo: e dopo molto tempo mi ritrovai vicino a mia cugina, con le mani contratte sul ferro gelido del parapetto...

La luna tramontata, sul paesaggio regnava ora un vago barlume bianco, sidereo, e il vento soffiava così freddo che mi costringeva a battere i denti. Gella non piangeva più e non tremava punto come me. Non ostante l’oscurità la vedevo sempre, bianca in tutta la persona, persino nei capelli biondi e negli occhi pallidi, fuorchè sul viso e sulle mani rosee, e pensavo che quel volto, quelle labbra di corallo e quelle mani dovevano scottare...

— Gella — cominciai non posso andar a dormire senza averti chiesto perdono... E lei; rizzatasi, restò muta. — Gella, — proseguii, — perdonami se ho osato dubitare così di te. Oh,